Incarnano il centro-sinistra europeo, prigioniero del consenso pro-austerità, che ha lasciato che la Grecia venisse strangolata senza proferire parola.
A turno, hanno imitato Gerhard Schröder, ottenendo una riduzione della protezione legale dei lavoratori, smantellando le vecchie conquiste sindacali che nessun governo di destra avrebbe potuto toccare in precedenza. Tutti e due hanno anche fallito nel rilanciare la crescita riducendo la tassazione sulle imprese. Le circostanze hanno voluto che Matteo Renzi e François Hollande annunciassero le proprie dimissioni a qualche giorno di distanza l’uno dall’altro. Ma è solo una parte dell’azzardo: il riconoscimento del fallimento del primo ministro italiano e del presidente francese chiudono a meraviglia un anno nero per l’establishment europeo.
A priori, la riforma istituzionale respinta la scorsa domenica in Italia con il 59% dei voti potrebbe sembrare lontana dagli obiettivi macro-economici ed europei. Si può dire che l’intenzione fosse lodevole, vista la complessità e il costo del sistema bicamerale italiano. Eppure! L’attribuzione di una maggioranza automatica al partito arrivato in testa alle elezioni doveva assicurare una stabilità politica sufficiente per “riformare l’Italia”, secondo la neolingua neoliberale che piace tanto ai media favorevoli alla riforma. Una bipolarizzazione della vita politica che ha avuto il vantaggio di indebolire “gli estremisti”, a favore di un’alternanza di facciata. Nel progetto costituzionale presentato agli elettori, l’addomesticamento del voto degli italiani è stato rafforzato ulteriormente dalla centralizzazione dei poteri su Roma e dalla politicizzazione del Senato – i cui membri avrebbero dovuto quindi essere cooptati.
Ma soprattutto, il referendum dello scorso week-end è stato trasformato dallo stesso Renzi in un plebiscito. Secondo il fiorentino, un “si” alle urne avrebbe rappresentato un assegno in bianco per le sue politiche di riduzione della spesa e di liberalizzazione dell’economia. Mettendo in gioco la sua funzione, il primo ministro voleva forzare la mano degli indecisi, ergendosi ad unico baluardo contro il caos e il “populismo”, mentre faceva leva su una delle peggiori motivi di quel populismo che desiderava combattere.
Questa figura di uomo della provvidenza, al di sopra delle parti, Matteo Renzi l’aveva già utilizzata nel 2013 e nel 2014, quando pugnalò i colleghi del Partito Democratico, Bersani e Letta, con il sostegno di Silvio Berlusconi, per aprirsi le porte di Palazzo Chigi. Una volta al potere, lo pseudo-nemico del populismo non ha tardato a far vibrare la fibra anti-funzionalista – “Finita la pacchia per gli imbroglioni!” aveva dichiarato mentre autorizzava il licenziamento lampo per i dipendenti statali colpevoli di assenteismo. E qualificava la legge che liberalizzava i licenziamenti abusivi del “Jobs Act” o “legge per l’impiego”. “ “Il Mondo nuovo”i non è poi così lontano.
Dopo tre anni di presunte “riforme indispensabili”, di “modernizzazione”, di “colpi di gioventù”, che cosa resta dell’ambizioso programma dell’ex pubblicitario? Un’Italia senza crescita, con milioni di esclusi, con diritti sociali in regresso e servizi pubblici in decadenza. I dati a disposizione parlano chiaro: la maggior parte dei “no” a Renzi arrivano dai giovani (68% sotto i 35 anni), dai disoccupati (65,8% in media nei distretti con il più alto tasso di disoccupazione) e dalle regioni periferiche (oltre il 70% in Sardegna e Sicilia).
Se non bisogna minimizzare la dimensione conservatrice di questo “no”, vedere in questo voto una “spinta populista” simile a quella della Brexit o del voto pro-Trump sarebbe senza senso e rappresenterebbe un errore grossolano. Resta da sapere chi trarrà profitto da questa disfatta salutare.
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