Σάββατο 24 Μαρτίου 2018

IL RISORGIMENTO GRECO E LA CULTURA EUROPEA (PARTE SECONDA )

Oν οí θεοí φíλοϋσιν άποθνήσχει νέος[2]

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LA RISCOPERTA DELLE GRECIA

La caduta di Costantinopoli sotto i colpi dei cannoni di Maometto II il 24 agosto 1453, richiamò l’attenzione dell’Europa cristiana sul tragico destino degli ultimi discendenti di Giustiniano e di Leone Isaurico. 

Alcuni studiosi non accettarono di sottomettersi alla Sublime Porta e presero la strada per Roma. Rinacque così l’interesse per lo studio del greco e dei grandi maestri classici, noti lungo tutto il Medioevo nelle versioni latine che ne avevano fatto i Romani e successivamente gli scriptoriaabbaziali. Aristotele era stato tradotto dall’arabo Averroè di Cordova, «Averrois, che il gran commento feo»[3], di cui parla Dante. Nelle principali università lo studio del greco si diffuse rapidamente. Umanisti come Basilios Bessarion (1403-1472) e Konstantinos Laskaris (1434-1501) furono punti di riferimento importanti. La stampa con caratteri mobili aumentò la possibilità di conoscenza e diffusione della lingua greca e degli autori più importanti. Aldo Manunzio (1449-1515) si distinse a Venezia con la sua bottega per la pubblicazione di moltissime opere in greco.

Le opere filosofiche furono quasi tutte stampate e diffuse in ogni angolo dell’Europa. Gli studi universitari ripresero con rinnovato vigore, essendo disponibili i testi originali commentati da dotti glossatori. Anche la rinascita della filosofia platonica per merito di importanti studiosi e umanisti europei  contribuì ad accrescere l’interesse per la Grecia, la sua straordinaria storia e l’immensa cultura. Tutto ciò rappresentava una eredità irrinunciabile per l’umanità e per il futuro dell’uomo. Se ne fece interprete anche Giovan Battista Vico (1668-1744), consapevole del continuo ritorno nell’evoluzione del pensiero delle radici antiche.

L’architettura rinascimentale assunse l’esperienza greca come fonte irrinunciabile d’ispirazione. Così, Andrea Palladio (1508-1580) tracciò i nuovi canoni del classicismo che si riflessero nelle forme del neoclassicismo e si diffusero per tutta Europa. Visitare Parigi, Londra, Berlino, Monaco di Baviera, Pietroburgo, tante città italiane  e le ville lungo il fiume Brenta è un ritorno costante e impareggiabile alla scuola greca. Così come osservare una scultura di Antonio Canova (1770-1844), Bertel Thorvaldsen (1770-1844) e Etienne Maurice Falconet (1716-1791) è ritornare con la mente alla grande arte ellenica. 

Poesia, narrativa, teatro e opera musicale non potevano prescindere dal mondo antico, ma a partire dal Settecento non era soltanto la Grecia arcadica di derivazione mitologica, popolata di dei, ninfe, pastori, ma soprattutto quella storica, eroica, civile. Non erano soltanto i trecento caduti delle Termopili ad accendere la fantasia o la figura di Odisseo (si pensi all’Ulisse dantesco!), ma personaggi come Agamennone, Ettore, Oreste, accanto a figure femminili come Antigone, Medea, Fedra, Elettra, Clitennestra, Cassandra.

I grandi poeti post-rinascimentali hanno guardato al  mondo greco come fonte inesauribile d‘ispirazione. William Shakespeare (1564-1616), Jean Racine (1639-1699), Pierre Corneille (1606-1684), Vittorio Alfieri (1749-1803), Kleist, Hölderlin hanno dedicato opere fondamentali ai protagonisti della storia greca antica. Non era mancato Goethe che aveva canato la figura di Ifigenia e poi Percy Bissye Shelley (1792-1822) che aveva esaltato il titanismo di Prometeo.

Il teatro musicale aveva attinto a piene mani dalla storia greca, cominciando da Jacopo Peri, Giulio Caccini e Claudio Monteverdi (1567-1643) con la favola di Orfeo ed Euridice, ripresa anche dal russo Evstignej Fomin (1761-1800) e Christoph Willibald Gluck (1714-1787); quest’ultimo affrontò il tema di Ifigenia in due opere che sono ancora oggi rappresentate. Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) portò in scena il mito di Idomeneo re di Creta. Ludwig van Beethoven (1770-1827) esaltò la titanica  ribellione di Prometeo, in un contesto temporale che vedeva in quella figura il simbolo dell’uomo in lotta per la libertà del sapere e il progresso nel fare, affrontato da poeti, scrittori e pittori. Luigi Cherubini trattò a tinte fortemente drammatiche il tema di Medea, facendone una eroina della passione amorosa e civile; quel personaggio troverà nella seconda metà del Novecento una memorabile interprete greca, quella Maria Kalagheropoulou, divenuta immortale con il nome di Maria Callas (1923-1977).

Quanti rimandi si potrebbero fare per testimoniare l’immenso debito che l’Europa moderna e contemporanea debbono alla cultura greca. Ma la sua origine ha motivazioni culturali più remote, legate alla riscoperta della cultura classica, in particolare di quella greca. Uno dei principali protagonisti di questa riscoperta è lo storico dell’arte Johann Joachim Winkelmann (1717-1768) i cui studi sul mondo antico influenzarono profondamente la cultura del Settecento e aprirono le porta al neoclassicismo. Friedrich August Wolf (1759-1824) nel 1795 inaugurò i corsi di studi omerici con i “Prolegomena ad Homerum”. Jean-Jacques Barthélemy con il romanzo Viaggio del giovane Anacarsi in Grecia del 1788 aprì la strada ai viaggi immaginari, unendo il gusto dell’avventura e dell’esotismo con la rivisitazione di luoghi legati alla storia e alla cultura antica.

Su tutti si erge la figura di Johann Wolfang Goethe 1749-1832). La sua sterminata opera letteraria è una costante testimonianza della profonda conoscenza del mondo greco antico. Tragedie come Ifigenia e poemi come Prometeo sono tra i vertici della poesia romantica. La Grecia di Goethe non è fatta di rovine e di nostalgia, ma è ricca di passioni e ribolle di contemporaneità. La seconda parte del suo poema Faust contiene un ritratto di Elena di Troia ricca di interpretazioni ancora oggi di grande fascino.

Bedecke deinen Himmel, Zeus,
Mit wolkendunst,
Und übe, dem Knaben gleich,
Der Disteln köpft
An Eichen dich und Bergeshön;
Must mir meine Erde
Doch lassen stehn
Und meine Hütte, die du nicht gebaut,
und meinen Herd,
um diessen Glut
du mich beneidest.[4]

Lo stesso Johann Christoph Friedrich Schiller (1759-1805) ha trovato il suo mondo più appropriato in figure mitiche, come Cassadra.

        Mir erscheint der Lenz vergebens,
        Der die Erde festlich schmucht:
        Wer erfrente sich des Lebens,
        Der in seine Tiefen blickt![5]

E infine August von Platen-Hallermünde (1796-1835), uno dei più amati poeti romantici tedeschi, fa rivivere la morte di Filemone, la favola ripresa da Ovidio.
      
        Und schlaft del Schlaf,
        von dem der Mensch niemals erwacht
        Bald ward Athen zur Beute Mazedoniern.[6]

In Italia la tradizione degli studi sulla Grecia si rafforza con Vincenzo Monti e soprattutto con Ugo Foscolo, Ippolito Pindemonte, Giacomo Leopardi. E’ soprattutto Ugo Foscolo che, essendo nato a Zante, la cui madre greca Diamantina Spatis gli trasmette anche nell’esilio veneziano l’amore per la terra d’origine, tesse lodi immortali a quel mondo che è consapevole di non rivedere mai più. La nostalgia si trasforma in furore patriottico per il destino della nuova Italia. I sepolcri e soprattutto Le Grazie ricamano rimandi di elevata potenza lirica al lontano alla Grecia nella cui gloria passata e nell’eroismo dei suoi figli migliori trova la forza per affrontare il presente e il futuro.

Ugo Foscolo (1778-1827) aveva lasciato l’Italia quando scoppiò la rivolta greca e dall’autunno del 1816 viveva in Inghilterra. Le sue condizioni economiche erano molto precarie, dovendo vivere grazie a collaborazioni letterarie. Nel 1818 aveva iniziato a tradurre l’Iliade, quasi una sfida a Vincenzo Monti che aveva definito spregiativamente «… cavaliero,/gran traduttor de’ traduttor d’Omero». Nel 1822 era impegnato a spendere l’eredità della figlia Floriana nella costruzione del Digamma cottage, ma nel 1824 va incontro all’arresto per debiti, dopo essersi nascosto per un certo tempo. Come poteva pensare alla Grecia? Infatti, non risulta che il poeta abbia fatto nulla tra gli esuli italiani per sostenere la causa della rivolta. Eppure, a leggere i suoi versi il cuore si accende.
      
        Salve, Zacinto! All’antenoree prode,
        De’ santi Lari Idei ultimo albergo
        E de’ miei padri, darò i carmi e l’ossa,
        E a te il pensier: ché pienamente a queste
        Dee non favella chi la patria oblia.
        Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
        Era ne’ colli suoi l’ombra de’ boschi
        Sacri al tripudio di Diana e al coro,
        Pria che Nettuno al reo Laomedonte
Munisse Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto. A lei versan tesori
L’angliche navi; a lei dall’alto manda
I più vitali rai l’eterno sole;
Candide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d’ulivi, e liberali
I colli di Lieo: rosea salute
Prometton l’aure, da’ spontanei fiori
Alimentate, e da’ perpetui cedri.[7]

Quando iniziò la composizione del poema Le Grazie, rimasto incompiuto, Foscolo si trovava a Firenze e le vicende greche erano  ancora lontane e neanche preannunciate. Ma proprio nel 1822, a Londra, pubblicò alcuni brani del poema, facendoli passare come traduzioni di poeti greci classici. Abitudine consolidata in lui, avendo inserito molti anni prima nel carme La chioma di Berenice circa sessanta versi dedicati alle Grazie, con l’espediente della traduzione dal greco. Ma su tutta la poesia di Foscolo, il carme intitolato I sepolcri, supera ogni altra prova.

        Felice te che il regno ampio de’ venti,
        Ippolito, a’ tuoi verdi anni correvi!
E se il piloto ti drizzò l’antenna
Oltre l’isole egee, d’antichi fatti
Certo udisti suonar dell’Ellesponto
I liti, e la marea mugghiar portando
Alle prode retèe l’armi d’Achille
Sovra l’ossa d’Aiace: a’ generosi
Giusta di glorie dispensiera è morte;
Né senno astuto, né favor di regi
All’Itaco le spoglie ardue serbava,
Ché alla poppa raminga le ritolse
L’onda incitata dagl’inferni Dei.[8]

E prima ancora, per esaltare il valore dei sepolcri eretti agli eroi di Maratona, aveva elevato un canto che ha significato e valore immortali. Si tratta di un esempio inimitabile di poesia civile che ha reso giustamente celebre il poeta in Italia, i cui versi ancora oggi gli studenti imparano a memoria.

       … Ah sì da quella
        Religiosa pace un Nume parla:
        E nutria contra a’ Persi in Maratona,
        ove Atene sacrò tombe a’ suoi prodi,
        La virtù greca e l’ira. Il navigante
Che veleggiò quel mar sotto l’Eubea,
Vedea per l’ampia oscurità scintille
Balenar d’elmi e di cozzanti brandi,
Fumar le pire igneo vapor, corrusche
D’armi ferree vedea larve guerriere
Cercar la pugna; e all’orror de’ notturni
Silenzi si spandea lungo ne’ campi
Di falangi un tumulto e un suon di tube,
E un incalzar di cavalli accorrenti,
Scalpitanti su gli elmi a’ moribondi,
E pianto, ed inni, e delle Parche il canto.[9]

Tornano alla mente i versi di Simonide, a cui tutti i poeti romantici si erano rifatti per celebrare il valore delle sepolture, a cominciare dagli inglesi del XVIII secolo.

Βωμός δ’ό ταφος.[10]

Il culto delle tombe era stato riacceso dal decreto di Napoleone di vietare le sepolture all’interno delle mura urbane. Da qui la reazione polemica di Ugo Foscolo con la composizione dei Sepolcri, pubblicati a Brescia nel 1807 dall’editore Bettola.

Qualche anno dopo anche Giacomo Leopardi affrontò il tema dell’eroismo dei Greci alla Termopili, con l’intento di esortare per gli Italiani a combattere per la propria patria. Ma era un contesto differente, in quanto il poeta lamentava che gli Italiani combattevano e morivano per lo straniero Napoleone: «Morian per le rutene / squallide piagge, ahi d’altra morte degni, / gl’itali prodi; e lor fea l’aere e il cielo / e gli uomini e le belve immensa guerra»[11], ovvero nella steppe della Russia durante la campagna militare del 1812. Era l’anno 1818 e a Recanati non giungeva nessuna avvisaglia delle futura tempesta greca. Tuttavia, il giovane Giacomo aveva sentito l’esempio di Leonida come un incitamento per gli Italiani addormentati, scarsamente dotati di amore patrio. E nell’ode All’Italia aveva tessuto l’elogio per i caduti in Maratona, al pari di come aveva fatto Simonide di Ceo (556 ca. – 468), praticamente 2.300 anni prima.

        Oh venturose e care e benedette
        l’antiche età, che a morte
        per la patria correan le genti a squadre;
        e voi sempre onorate e gloriose,
        o tessaliche strette,
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch’alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
e le montagne vostre al passeggere
con indistinta voce
narrin siccome tutta quella sponda
coprìr le invitte schiere
de’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.[12]

E proprio a Simonide ricorre Leopardi per esaltare il valore dei caduti alle Termopili, immaginando che il vate salga sulla collina per esaltare di fronte all’Ellade la morte eroica nella lotta contro i Persiani comandati da Serse.
      
        Beatissimi voi,
        ch’offriste il petto alle nemiche lance
per amor di costei ch’al Sol vi diede;
voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli
Qual tanto amor le giovanette menti,
qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sì lieta, o figli,
l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
né le spose vi foro o i figli accanto
quando su l’aspro lito
senza baci moriste e senza pianto.[13]

Ancora una volta il ricorso a Simonide è d’obbligo, quando richiama il senso della morte che non rende estinte le vite dei caduti nella memoria dei posteri.

        Ούδέ τεθνάσι θανόντες.[14]

Si consideri che anche Pietro Giordani aveva fatto ricorso a Simonide per esaltare l’eroismo dei caduti alle Termopili, traducendo proprio le versione di Diodoro Siculo.

De’ morti alle Termopile gloriosa è la fortuna, bello il fine, altare la tomba, lode la sventura. La funeral vesta di que’ valorosi non sarà consumata né discolorata mai dal tempo che vince ogni cosa. Le loro sepoltura contiene la gloria degli abitanti di Grecia. N’è testimonio Leonida, re di Sparta, che lasciò gran bellezza di virtù e fama perenne.

Nel 1821 Leopardi compone un canto per le nozze della sorella Paolina. E’ ancora una volta l’occasione per ricorrere alla storia greca, questa volta guardando alla tradizione di Sparta, per tessere l’elogio delle donne, madri e spose di valorosi lacedemoni.

        Qual de’ vetusti eroi
        tra le memorie e il grido
        crescean di Sparta i figli il greco nome;
finché la sposa giovinetta il fido
brando cingeva al caro lato, e poi
spandea le negre chiome
sul corpo esangue e nudo
quando e’ reddia nel conservato scudo.[15]

La Grecia ha dunque un peso formidabile nella formazione della cultura romantica. Quando la fiamma della rinascita si accende sulle rovine dell’Ellade e tra le chiese ortodosse officiate dai sacerdoti vestiti di nero, i più intrepidi europei non possono restare a guardare. Partono, come si è visto. E qualcuno non tornerà. Molti sono rimasti a casa o nell’esilio forzato, per i motivi più svariati. Ma gli esempi che la storia ci ha tramandato sono sufficienti per dimostrare come la Grecia ha scosso le coscienze e contribuito a rafforzare la coscienza politica dell’Europa liberale e democratica.
      
Questo è il quadro culturale, tracciato per grandi linee generali, in cui si accende la passione tra gli intellettuali, gli uomini di cultura e gli artisti per la rinascita della Grecia. Quando si sparge la notizia della rivolta contro gli Ottomani i cuori dei più intrepidi s’infiammano. Il sentimento e lo spirito romantico, che avevano pur sempre le loro radici nella cultura classica, fanno il resto.

I FILOELLENI

La solidarietà con i Greci in lotta non si manifestò soltanto con la presenza tra gli insorti. In Europa la campagna di sostegno alla causa greca si manifestò con modalità e forme organizzative diverse. Non ci si limitò alla costituzione di comitati per la raccolta di fondi tra la popolazione dei rispettivi paesi. Scrittori, poeti, musicisti, pittori lanciarono appelli ai governi dei propri paesi perché si schierassero a fianco del popolo ellenico. Nacquero ovunque i comitati di solidarietà che furono noti con il nome di Filoelleni. Fu il primo movimento di solidarietà nato in Europa, che aprirà la strada alla Giovine Europa di Giuseppe Mazzini molti anni dopo.

Il poeta inglese George Byron, accorso generosamente dall’Italia dove si trovava, aveva avviato una vastissima campagna in Inghilterra a favore della causa greca. Era divenuto il punto di riferimento degli insorti greci, a cominciare da Mavrokordatos, ma anche delle autorità inglesi che guardavano con attenzione a quanto accadeva nell’Egeo. 

In Francia le vicende greche erano seguite con molta simpatia dai circoli liberali, dagli artisti e dagli uomini di cultura che avevano incontrato lo splendore della Grecia antica nel corso dei loro studi e qualche volta dei loro viaggi. François de Chateaubriand scrisse numerosi articoli a sostegno della causa ellenica; Claude Fauriel (1772-1844) e soprattutto Benjamin Constant (1767-1830) che pronunciò infiammati discorsi all’Assemblea Nazionale. Il generale Charles Nicolas Fabvier (1782-1855) nel 1823 fu incaricato dal governo francese di recarsi in Grecia con un gruppo di volontari e di rafforzare le fortificazioni di Navarino.

In Inghilterra, importanti uomini di governo come Cochrane e Church sposarono la causa greca, anche se dovettero tenere conto della cautela con cui si muoveva la Gran Bretagna nello scacchiere dell’Egeo e dello Ionio.

Dall’Italia partirono i piemontese conte Santorre di Santarosa e Giacinto Provana di Collegno che si unirono agli altri patrioti che si trovavano già in Grecia. La rivista “Antologia”, pubblicata a Firenze, manifestò in numerose occasioni il sentimento di solidarietà degli uomini di cultura di ispirazione liberale, a fianco della rivolta greca.

Questo movimento di opinione favorevole sul piano politico e di simpatia sul terreno culturale, aveva anche motivazioni di carattere più generale, compreso quelle religiose in alcuni casi. I Greci ortodossi guardavano più a Mosca, la terza Roma dopo la caduta di Costantinopoli, che in Occidente, ma i rappresentanti della ricca borghesia commerciale e delle professioni economico-industriali sentivano che il futuro era il continente europeo, quelle terre che portavano il nome della figlia del re di Tiro rapita dal callido Zeus. Liberarsi dai Turchi non voleva dire sottomettersi alla potenza dello zar, nel nome della fratellanza ortodossa.

Per questo, la rivolta greca fu vissuta con sentimenti differenti ne vari paesi europei, ma sempre con spirito di solidarietà e di aperto sostegno.

Oggi è ancora aperta la discussione su quali furono le cause che favorirono la rivolta greca. Su tutte ci sono lo spirito e l’esempio della Rivoluzione americana e soprattutto di quella francese. Ma è stato Napoleone Bonaparte che dimostrato che si possono condizionare e anche abbattere regni e imperi secolari. Quanto accaduto nel decennio 1802-1812 era significativo. Soltanto la Spagna e la Russia erano riusciti a resistere all’impeto della Grande Armée, anche se i costi in termini di vite umane erano stati altissimi. Ma era la cultura romantica che spingeva molti europei a sostenere la causa greca. Non c’era in discussione l’indipendenza del popolo  della nazione ellenica soltanto. Quei sentimenti non erano ancora diffusi nella coscienza degli europei. Tra i patrioti di ascendenza liberale erano presenti gli aspetti delle libertà individuali sanciti dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo. A ciò si legava la libertà di associazione e quindi della libera circolazione delle persone e delle merci. Il tema della libertà di navigazione e di commerciare era molto sentito e in greci, su questo piano, avevano una lunga esperienza alle spalle. In definitiva, libertà di pensiero e di fede si univa con libertà di intraprendere, produrre e commerciare. Era il positivismo che si univa inconsapevolmente al romanticismo. L’idea del popolo nazione che caratterizzerà i decenni successivi della storia d’Europa non erano ancora prevalenti.

Ma come si è visto erano fortissimi gli aspetti dell’eredità rappresentata dalla Grecia classica. Eredità ideale politica,  culturale, artistica ed estetica: sicuramente il mondo di Omero, Pericle, Sofocle, Aristotele, Epicuro, Plotino, Pitagora, Erodoto e Platone non sarebbe potuto rinascere e tornare a speldere. Ma dalle sue ceneri il cui era stato ridotto da latini, barbari e ottomani sarebbe potuta rinascere la Grecia moderna, esempio forse ancora per le genti del Mediterraneo e dell’Occidente.

Per questo accorsero in tanti. E fu un moto che sorprese l’Europa.

GEORGE BYRON

Il poeta inglese aveva dedicato il suo poema Childe Harold’s Pilgrimagealla Grecia. I tempi dell’insurrezione erano ancora lontani.

        Oh, thou! In Hellas deem’d of heav’nly birth,
        Muse! form’d or fabled at the minstrel’s will!
        Since sham’d full oft by later lyres on earth,
        Mine dares not call the from thy sacred hill:
        Yet there I’ve wander’d by thy vaunted rill;
        Yes! Sigh’d o’er Delphi’s long-deserted shrine,
        Where, save that feeble fountain, all is still;
        Nor mote my shell awake the weary Nine
        To grace so plane a tale – this lowly lay of mine.[16]

Egli sentiva il rapporto con la Grecia come una missione, al pari di quello con l’Italia. Dall’Italia, infatti, partì per prestare soccorso agli insorti, accompagnato da fedeli compagni. Missolungi era la sua meta e nella città di fronte alle sponde del Peloponneso trovò alloggio. Nel suo poema aveva elevato la protesta per la spoliazione inglese del Partenone e di altri reperti classici.
      
Ciechi gli occhi che non versano
        Lacrime vedendo, o Grecia amata,
le tue sacre membra razziate da profane
mani inglesi, che hanno ferito
ancora una volta il tuo petto dolente,
e rapito i tuoi dei, dei che odiano
l’abominevole nordico clima d’Inghilterra.

Così come nell’altro poema dedicato alla figura di Don Juan aveva esaltato la bellezza selvaggia della Grecia, i costumi degli abitanti e soprattutto delle giovani donne.

        But beef is rare within these oxless isles;
        Goat’s flesh there is, no doubt, and kid and mutton,
        And when a holiday upon them smiles,
        A joint upon their barbarous spits they put on.
        But this occurs but seldom, between whiles,
        For some of these are rocks with scarce a hut on;
        Others are fair and fertile, among which
        This, though not large, was one of the most rich.[17]

Il poema celebra l’amore secondo natura, che acquista un alone ideale. La protagonista femminile è Haidée, una giovane “selvaggia” figlia di un pirata e orfana di madre. La ragazza trova sulla spiaggia, come una novella Nausicaa sull’isola dei Feaci, il naufrago Juan, riporta in vita l’eroe gettato dalle onde del mare Egeo sulle sponde della sua isola, finisce con innamorarsi dello straniero e gli dona i tesori incorrotti della sua anima e del suo corpo, fondendosi con lui nel regno di una solitudine sublime a due, nel grembo dell’universo. E’ il ritrovato Eden biblico, il Paradiso terrestre dei cristiani. La bellezza di Haidée è figlia di quella selvatica isola, ma porta dentro di sé la gloria e lo splendore del passato.

Lord Byron accorre a salvare dalla scimitarra turca quella memorabile fanciulla e lo fa con l’ardimento e la passione che portano a sfidare il colera e la morte. Missolungi sarà la sua tomba.

Ma l’appuntamento fatale è ancora lontano. Nella grotta dove viene trasportato regna l’incanto della bellezza selvaggia di Haidée.

        Her brow was overhung with coins of gold,
        That sparkled o’er the auburn of her hair,
        Her clustering hair, whose longer locks were rolled
        In braids behind, and though her stature were
        Even of the eghest for a female mould,
They nearly reached her heel. And in her air
There was a something which bespoke command,
As one who was a lady in the land.[18]

Il gusto dell’esotismo prende certamente la mano al poeta, ma non c’è dubbio che la circostanza di trovarsi di fronte a una principessa, novella Nausicaa appunto, crea un’atmosfera che esalta la fantasia e accende il cuore. Come non restare stregati da tanto fascino?

        Her hair, I said, was auburn, but her heyes
        Were black as death, thei lashes the same hue,
        Of downcast length, in whose silk shadow lies
Deepest attraction, for when to the view
Forth from its raven fringe the full glance flies,
Ne’er with such force the swiftest arrow flew.
‘Tis as the snake lat coiled, who pours his length
And hurls at once his venom and his strength.[19]

Non è certamente veleno che sprizza nel sangue di Juan/Byron, ma una calda passione per tutto ciò che appartiene a quel mondo, al mare, alle rocce, alla vegetazione. E’ il sentimento romantico dell’epoca che diventa passione civile. E per conquistare il pieno possesso di quello slancio, il poeta è pronto a tutto.

And then she had recourse to nods and signs
And smiles and sparkles of the speaking eye,
And read (the only book she could) the lines
Of his fair face and found, by sympathy,
The answer eloquent, where the soul shines
And  darts in one quick glance a long reply;
And thus in every look she saw exprest
A world of words, and things at which she guessed.[20]

Giunto a Missolungi, Byron si rende conto del compito eroico che lo attende, ma anche della situazione disperata in cui si trova la città, sia per le condizioni oggettive determinate sulla popolazione dall’assedio, sia per l’indisciplina e l’inaffidabilità di molti difensori. Eppure la città resiste disperatamente. Ma il colera che infuria miete più vittime dei cannoni di Ibrahim Pascià, l’egiziano al servizio della Sublime Porta da cui la terra dei faraoni si è da poco riscattata.

Il 18 aprile 1824 muore circondato dai suoi fedeli amici, tra cui l’italiano Pietro Gamba. Le sue ultime parole sono state: «Ora voglio dormire!»

SANTORRE DI SANTA ROSA

Sorte differente è toccata all’italiano Santorre Annibale Derossi, conte di Pomerolo, signore di Santa Rosa (1783-1825). Nato in una famiglia di militari, entrò giovanissimo nell’esercito regio piemontese, combattè a Mondovì come granatiere nel 1796 contro l’Armée d’Italie di Napoleone Bonaparte. Studiò all’Università di Torino, dove venne a contatto con elementi legati alla massoneria. Eletto sindaco di Savignano nel 1807, carica che tenne fino al 1814, entrò nell’amministrazione francese delle province sabaude. Dopo il ritorno dei Savoia, nel 1816 entrò nel ministero della guerra come ispettore delle giovani leve militari. Nel 1820 si accostò alla Carboneria, perorando un programma che vedeva Vittoria Emanuele I porsi a capo di un esercito per liberare l’Italia dalla dominazione straniera, creando così le basi per un regno unitario. Il re reagì a queste proposte inasprendo il regime assolutistico e le persecuzioni contro i dissidenti. Santorre pensò di poter trovare sostegno alle proprie idee appoggiandosi al giovane Carlo Alberto, erede al trono, che attestava sentimenti progressisti.

Si giunge al 1820. Le insurrezioni in Spagna, Portogallo e Regno di Napoli trovarono Santorre impegnato a sostenere la causa dei rivoltosi. Intanto, aspettava il momento giusto per agire in Piemonte. Questo venne nel 1821, quando la congiura politico-miltare portò alla elezione di Carlo Felice a re di Piemonte e alla nomina di Carlo Alberto a reggente, essendo il sovrano lontano da Torino. Fu proclamata la Costituzione e nominato un governo provvisorio, nel quale Santorre fu designato ministro della guerra. Ma Carlo Felice, sopraggiunto in patria, rifiutò l’elezione, sfiduciò Carlo Alberto, abolì la Costituzione e sciolse il governo provvisorio.

Santorre Annibale Derossi si rifugiò prima in Svizzera, unitamente ad altri patrioti, e poi in Francia. A Parigi cercò di sopravvivere, anche grazie all’aiuto del filosofo Victor Cousin che lo ospitò ad Auteil per farlo sfuggire alla gendarmeria. Ma dopo qualche tempo fu riconosciuto dalle forze dell’ordine; per evitare di essere catturato e consegnato alle autorità piemontesi, nell’ottobre del 1822 fu costretto a fuggire in Inghilterra. A Londra conobbe i poeti Giovanni Berchet e Ugo Foscolo. Ma fu l’aiuto disinteressato di Giacinto di Collegno, un patriota piemontese ugualmente esule, che gli consentì di superare le più gravi difficoltà. Ma non poteva durare a lungo quello stato di precarietà. Nacque così l’idea di recarsi in Grecia e di unirsi ai rivoltosi, mettendo a disposizione la sua esperienza militare e politica. I due amici si recarono a Nottingham per imbarcarsi verso la Grecia. L’aiuto di Sarah Austin, una dama di sentimenti liberali, facilitò l’imbarco. Santorre Annibale si recò subito a Nauplia, pensando di ottenere qualche incarico di prestigio, ma le negative referenze inglesi lo avevano preceduto. Così fu accolto freddamente e quasi evitato dalle autorità greche.

Nella primavera del 1825 si recò a Patrasso per prendere parte alla battaglia contro Ibrahim Pascià e dopo la vittoria dei rivoltosi, si diresse a Navarino, nell’Egeo. La piccola isola di Sfacteria, di fronte a Navarino, resisteva all’assedio della flotta di Mehmet Alì, che il 5 maggio aveva sferrato l’attacco decisivo. Il 7 maggio furono inviati circa cento soldati in soccorso dei mille greci impegnati nell’assedio. Il francese Antoine Grasset consigliò Santorre Annibale di lasciare l’isola, approfittando delle tante barche ancorate, ma l’italiano rifiutò. La mattina dell’8 maggio fu sferrato un attacco violento e Santorre Annibale fu ucciso da un soldato maltese. Qualcuno raccontò che ad aggredirlo era stato un marinaio egiziano.

Il giorno successivo Giacinto Collegno si recò a Sfacteria in cerca del suo amico, ma il corpo non è stato mai ritrovato.

La notizia destò qualche sensazione tra i patrioti europei, ma Santorre Annibale Derossi non aveva vasta celebrità e fu quindi dimenticato rapidamente. Non fu dimenticata la battaglia di Navarino, la cui conclusione fu molto importante per le sorti della guerra. Un dipinto di Ambroise Louis Garneray, di qualche anno dopo, rappresenta efficacemente lo scontro tra le navi turco-egiziane e i difensori sui bastioni dell’isola.

A Savignano, paese natale di Santorre di Santa Rosa,  è stato eretto un monumento soltanto nel 1868, opera dello scultore romano Giuseppe Luchetti Rossi.

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[1]« Dei morti alle Termopili / gloriosa la sorte, / bella la fine,/  la tomba un'ara, invece di pianti,/ il ricordo, il compianto è lode./ Un tal sudario/ né ruggine né il tempo mangiatutto oscurerà. / Questo sacello d'eroi valorosi / come abitatrice la gloria d'Ellade si prese. / Ne fa fede anche Leonida, / il re di Sparta, / che ha lasciato di virtù / grande ornamento e imperitura gloria.» Simonide di Ceo

[2] Menandro, «Muore giovane chi agli dei è caro».

[3] DANTE ALIGHIERI, Inferno IV, 134

[4] JOHANN WOLFGANG GOETHE, Prometheus, in Antologia della poesia tedesca, a cura di Roberto Fertonani, Mondadori, Milano 1991. «Vela il tuo cielo, Zeus, / con vapore di nubi, / esercitati, / simile al bambino / che decapita cardi, / con le querce e le vette dei monti; / ma la mia terra, / e la mia capanna che non costruisti, / e il mio focolare, / per la mia vampa / mi porti invidia».

[5] JOHANN CHRISTOPH FRIEDRICH SCHILLER, Kassandra, in op. cit., p.   « Vana mi è la primavera / che la terra a festa adorna; / chi della vita più si rallegra, / se il suo sguardo la penetra a fondo».

[6] AUGUST VON PLATEN-HALLERMÜNDE, Philemons Tod, in op. cit., p.   «E dorme il sonno di cui l’uomo mai si svegliò. / Subito dopo Atene fu preda dei Macedoni»,

[7] UGO FOSCOLO, Le Grazie, vv. 48-65,  in «Poesie», a cura di Guido Bezzola, Rizzoli, Milano 1976-1988, pp. 125-126.

[8] U. Foscolo, I sepolcri, vv. 213-225,  in op. cit., pp. 98-99

[9] Ibidem, vv. 197-212, pp. 97-98

[10] SIMONIDE DI CEO, R. 18«La vostra tomba è un’ara». E’ nota anche a versione B 24: »Ara vi sia la tomba».

[11] GIACOMO LEOPARDI, “Sopra il monumento di Dante”, in Canti, a cura di Lucio Felici, Rizzoli, Milano 2014, vv. 139-140.

[12] G. LEOPARDI, “All’Italia”, op. cit., vv. 62-73, pp. 6-7

[13] G. LEOPARDI, “All’Italia”, in op. cit., vv. 84-100, p. 8

[14] SIMONIDE DI CEO, «Né, pur essendo morti, sono morti», da Diodoro Siculo (XI, 11, 6).

[15] G. LEOPARDI, “Nelle nozze della sorella Paolina”,in op. cit., vv. 68-75, p. 35

[16] GEORGE BYRON, “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo”, in Opere scelte, a cura di Tommaso Kameny, Mondadori, Milano 1993. «O tu in Ellade creduta di nascita divina,/Musa! Favolosamente configurata dalla volontà del cantore!/Molto spesso deturpata dalla più recente poesia in terra,/la mia cetra richiamarti non osa dal tuo sacro collo:/eppure io vagai lungo il tuo celebrato ruscello;/sì! Ti rimpiansi sull’altare di Delfi da tempo deserto,/dove, a parte quella fievole fonte, tutto tace;/né per gratificare la mia lira desto le Nove esauste/per adornare una storia così ordinaria, questo modesto poema».

[17] GEORGE BYRON, Don Juan, canto II, 154, vv.1225-1232, in Opere, cit., p. 392.  «Ma la carne di manzo è rara su queste isole prive di bovini; / di carne di capra ve n’è, e di capretto e di montone. / E quando una festività sparge su di loro il suo sorriso, / su loro spiedi barbareschi infilano bocconcini di carne. / Ma ciò avviene solo raramente, e a distanza di tempo, / poiché alcune di queste isole sono tutta roccia con su qualche capanna; / altre sono belle e fertili, tra le quali la presente, / anche se non grande, era una delle più opulente».

[18]  Ibidem, II, 116, 921-928, p. 381. «La sua fronte di monete d’oro adorna, / irraggiava i suoi capelli d’un castano ramato, / i suoi capelli raccolti, le cui ciocche più lunghe / scendevano in trecce, e per quanto la sua statura / fosse per una taglia femminile rilevante, / quasi le giungevano ai calcagni. E nel suo sembiante / vie era qualcosa della fierezza di chi comanda, / come conviene a una Signora di quella landa».

[19] Ibidem, II, 117, 929-936, p. 381-382. «I suoi capelli, come dissi, erano d’una castano ramato, / ma i suoi occhi erano neri come la morte, le sue ciglia / del medesimo colore, alla cui serica ombra s’incontra / la malia più profonda, poiché non c’è strale, / per quanto rapido, che abbia la potenza fatale / del so sguardo quando dalla frangia corvina affiora. / E’ come il serpente che, prima in cerchi avvolto, si raddrizza / d’un subito e con tutta la sua forza il suo veleno sprizza».

[20] Ibidem, II, 162, 1289-1296, p. 398. «E allora fece ricorso a cenni e a segni / e a sorrisi e lampi, esprimendosi con gli occhi, / e lesse (unico libro a disposizione) i lineamenti / del suo bel volto e trovò, per affinità, / risposte eloquenti là dove l’anima risplende / e in una occhiata rapida lancia una lunga risposta; / e così in ogni sguardo ella trovò l’espressione / di un mondo di parole e di cose di cui congetturare l’accezione».


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