Nei giorni della pandemia, riflessioni su Enea, un eroe mitologico
Alessio Argentieri
Roma, 13
Aprile 2020 – Ricordiamo Enea. Il periodo attuale favorisce la riscoperta di
usi, valori e connessioni trascurate nella vita ordinaria precedente, che
l’evento in corso ha sconvolto a livello globale, probabilmente in modo
irreversibile. Questi effetti collaterali, nonostante la gravità assoluta del
momento, hanno ricadute positive. Nella quotidianità, oltre al riallacciarsi di
relazioni a distanza, ricompaiono anche azioni desuete come i tagli di capelli
casalinghi o panificazioni domestiche, con esiti sovente deludenti ma comunque
encomiabili (la vittoria mancò, non il valore!).
Oggi sulle
colonne di “www.attualita.it” si vuole proporre, in questa atmosfera, una
particolare riscoperta. Quella di un personaggio che da giovani lettori non
apprezzammo adeguatamente, ma che l’età di mezzo ci fa invece comprendere nella
sua multiformità.
Negli studi
classici giovanili una svogliatezza di fondo (il redattore parla per sé,
sperando però di trovare accoliti, nel senso originario del vocabolo greco
akólouthos, cioè “compagno di viaggio”) veniva scossa nello scolaro solo dalle
storie mirabili dei poemi epici che ebbero sulle sponde del Mediterraneo il
loro teatro. Erano le vicende degli eroi Achei, su tutti il celebrato Ulisse, a
risvegliare dal torpore l’interesse dello studente.
A fronte dei
trionfi bellici dei Greci cantati nell’Iliade e nell’Odissea, era fisiologico che
un’altra opera, che nei programmi didattici, per sequenza cronologica, arrivava
necessariamente dopo, risultasse battuta in partenza. Stiamo parlando
dell’Eneide, che si presentava come una prosecuzione di serie B, uno “spin-off”
più palloso e sfigato delle epopee precedenti. Protagonista Enea, l’erede dei
Troiani sconfitti, costretto alla fuga in cerca di riparo verso terre lontane,
giovane vedovo con l’anziano padre a cavacecio e il figlioletto aggrappato alla
coscia.
A parità di
categoria “eroi epici”, tra i vari Ulisse, Diomede e Achille da una parte e
Enea dall’altra, ci passava una bella differenza. Come se tra i personaggi
Marvel comparassimo i Fantastici Quattro o Thor con il semisconosciuto Lanterna
Verde, sempre con rispetto parlando.
Viene domandarsi
se anche il sommo Dante non abbia voluto ripagare di questa penalizzazione il
suo predecessore Virgilio, regalando al Vate mantovano nella sua opera divina,
massima espressione della letteratura di ogni tempo, il ruolo di miglior non
protagonista.
Queste
riflessioni si svolgono sui Sette Colli, che tra mito e storia, guardano al
semidio Enea, come capostipite indiscusso della lazialità (prima) e della
romanità (poi), in ogni senso. Financo i più accesi campanilisti (e nella
redazione sportiva di questo giornale ne abbiamo due fulgidi esempi (Amedeo
Santicchia, laziale e Franco Bovaio, romanista) debbono necessariamente
riconoscere in questo avo ancestrale una radice comune che unisce le due sponde
tiberine.
Da Enea
discende financo l’archetipo dello scontro fratricida, l’essenza pura del
Derby: dal duello tra Orazi e Curiazi sino a quello fondante del mito della
Città Eterna, che contrappose i gemelli Romolo e Remo (di recente riproposto
sugli schermi cinematografici ne “Il primo Re”, interessante versione che,
senza accezione dispregiativa, si potrebbe definire un “Apocalypto alla
vaccinara”).
A
conclusione di questo strampalato ragionamento, Enea emerge però come esempio
di grandissima attualità. Questo eroe pellegrino, che superate molte peripezie,
riesce a ricominciare dal nulla la propria esistenza sulle coste tirreniche
laziali, che si fa carico e si prende cura di piccoli e anziani, tenendo unite
le generazioni nei momenti di difficoltà, è un esempio di resilienza e capacità
di adattamento. Un riferimento a cui guardare con speranza, a distanza di
secoli, in questi tempi cupi. Chiediamo perciò venia al principe dei Dardani,
figlio di Afrodite e Anchise, per i molti sbadigli con cui in gioventù ascoltammo
le sue gesta che il tempo, galantuomo, è riuscito invece a farci infine
apprezzare.
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