Onorino
Pietrobon, 98 anni, è ultimo testimone della strage del Galilea: 1050 uomini
affogati, la maggior parte alpini reduci della campagna di Grecia. Ha fatto
dipingere la nave su una facciata della casa: «Dimenticherò solo quando non ci
sarò più»
20 maggio 2019
Pochi sanno
che fra i campi di grano di San Quirino, nell’alta pianura friulana, dove tutto
sa di fieno frumento e bestiame, c’è una casa con una nave. È il piroscafo Galilea,
tristemente famoso per il naufragio del 28 marzo 1942 al largo di Corfù con a
bordo 1.329 reduci della campagna di Grecia. Spunta sotto il tetto, dipinto su
una facciata con le onde di un mare in burrasca. Dentro la casa e anche un po’
in quella nave, c’è lui, Onorino Pietrobon, l’ultimo dei 279 superstiti del
naufragio che costò la vita a 1.050 uomini, la maggior parte alpini come lui
affogati nelle acque agitate della Grecia dopo l’affondamento del Galilea
silurato da un sommergibile inglese, il Proteus. Pietrobon ha 98 anni portati
splendidamente, una moglie di nome Teresa che lui cerca sempre con gli occhi e
una volontà di ferro, pronto ad alzarsi dalla sedia con tutte le sue forze per
qualsiasi cosa. Per mostrarti le foto, per mettere il cappello con la penna
nera e per uscire in giardino aiutato dalla nipote Diana e puntare il dito lì,
sulla nave dipinta: «Le vedi quelle onde, erano molto più alte quando ci ha
preso il siluro degli inglesi...». Le onde, il cielo nero, il gigante piegato
su un fianco e quelle urla.
«Tutti si
buttavano»
«Tutti che
si buttavano e chiamavano gli altri. Avevo due amici di Vicenza, uno era
Giuseppe, è rimasto su ed è morto...». Il ricordo è sempre vivo e ancora oggi,
dopo averlo raccontato per la millesima volta, gli fa stringere le labbra. Si
ferma, tace, poi riprende: «Il mare era un drago... prima del siluro, i nostri
si erano accorti del sommergibile e il caporale aveva dato l’ordine di seguirlo
sottocoperta. Io non l’ho voluto ascoltare ma per regolamento ho dovuto
togliere scarpe e pantaloni perché se finivo in mare mi potevano trascinare a
fondo. Avevo levato la cintura per legare meglio il giubbotto di salvataggio
perché ho pensato che se si sfilava ero morto. Come molti alpini, io non sapevo
nuotare... Quando è arrivato il siluro ci fu un boato terribile, la nave sbandò
subito... Il sergente urlava “si salvi chi può”, il comandante diceva “calma,
ragazzi, non ho dato l’ordine di abbandono”. Acqua e fumo dappertutto. Chi
piangeva, chi cercava una scialuppa che non c’era. Tutti pensavano a salvare se
stessi. Io pregavo Sant’Antonio e a un certo punto mi sono tuffato, sbagliando,
perché le onde mi riportavano su. Ci ho provato tre volte...».
La zattera
Alla terza
Pietrobon è riuscito a prendere il mare ed è iniziata la notte più lunga della
sua vita. «L’acqua era gelida ma io pensavo solo a prendere qualcosa che
galleggiasse». Nel buio di un mare che ogni tanto veniva illuminato dai
fulmini. L’inferno.
Fino a
quando, dopo diverse ore, all’albeggiare, apparve un zattera. «Piccolissima.
C’erano sopra due naufraghi e tutto intorno, aggrappati, molti altri. Saranno
state una ventina di persone, ogni tanto se ne staccava una perché perdeva le
forze e spariva. Quando arrivò la torpediniera Mosto a prenderci eravamo
rimasti in tre». Ore 14.15 del 29 marzo 1942. La nave era stata silurata alle
22.45 del giorno prima: sedici ore sospese fra la vita e la morte. «Penso di
avercela fatta solo perché avevo braccia forti, da contadino».
«Non posso
dimenticare»
Prima di
partire per la guerra, Pietrobon, un pezzo d’uomo, alto, forte, lavorava da
mezzadro e amava il pugilato. Quando tornò, nella confusione di quegli anni,
riprese a coltivare, poi fece il mugnaio, anche l’operaio metalmeccanico ma
senza mai lasciare i campi che ancora circondano la sua casa, fra oche e
galline e qualche vigna di prosecco oggi curata dal figlio Silvano. La campagna
friulana e quella nave che l’ha accompagnato per settant’anni. «Non posso
dimenticare. Da allora ogni mattina io penso almen per qualche secondo a quella
notte, alle urla. Una guerra inutile fra povera gente fatta ai greci per un
capriccio di Mussolini. E ogni giorno ringrazio anche il Cielo per avermi risparmiato
la vita». Se per caso non lo facesse, a ricordarglielo c’è l’affresco e le
molte cose che fra queste mura parlano del naufragio, tipo la benedizione di
papa Wojtyla. «Per dimenticare tutto devo morire. Ma fino a che son qui il
Galilea ci sarà sempre».
Lo guarda,
stringe gli occhi, tace. Mentre la moglie lo tiene d’occhio dalla finestra:
«Dai Onorino, adesso basta».
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