Δευτέρα 20 Μαΐου 2019

L’alpino superstite del naufragio del 1942: «Sogno ancora le urla su quella nave»

L'alpino  superstite del naufragio del 1942: «Sogno ancora le urla su quella nave»

Onorino Pietrobon, 98 anni, è ultimo testimone della strage del Galilea: 1050 uomini affogati, la maggior parte alpini reduci della campagna di Grecia. Ha fatto dipingere la nave su una facciata della casa: «Dimenticherò solo quando non ci sarò più»

20 maggio 2019

Pochi sanno che fra i campi di grano di San Quirino, nell’alta pianura friulana, dove tutto sa di fieno frumento e bestiame, c’è una casa con una nave. È il piroscafo Galilea, tristemente famoso per il naufragio del 28 marzo 1942 al largo di Corfù con a bordo 1.329 reduci della campagna di Grecia. Spunta sotto il tetto, dipinto su una facciata con le onde di un mare in burrasca. Dentro la casa e anche un po’ in quella nave, c’è lui, Onorino Pietrobon, l’ultimo dei 279 superstiti del naufragio che costò la vita a 1.050 uomini, la maggior parte alpini come lui affogati nelle acque agitate della Grecia dopo l’affondamento del Galilea silurato da un sommergibile inglese, il Proteus. Pietrobon ha 98 anni portati splendidamente, una moglie di nome Teresa che lui cerca sempre con gli occhi e una volontà di ferro, pronto ad alzarsi dalla sedia con tutte le sue forze per qualsiasi cosa. Per mostrarti le foto, per mettere il cappello con la penna nera e per uscire in giardino aiutato dalla nipote Diana e puntare il dito lì, sulla nave dipinta: «Le vedi quelle onde, erano molto più alte quando ci ha preso il siluro degli inglesi...». Le onde, il cielo nero, il gigante piegato su un fianco e quelle urla.

«Tutti si buttavano»

«Tutti che si buttavano e chiamavano gli altri. Avevo due amici di Vicenza, uno era Giuseppe, è rimasto su ed è morto...». Il ricordo è sempre vivo e ancora oggi, dopo averlo raccontato per la millesima volta, gli fa stringere le labbra. Si ferma, tace, poi riprende: «Il mare era un drago... prima del siluro, i nostri si erano accorti del sommergibile e il caporale aveva dato l’ordine di seguirlo sottocoperta. Io non l’ho voluto ascoltare ma per regolamento ho dovuto togliere scarpe e pantaloni perché se finivo in mare mi potevano trascinare a fondo. Avevo levato la cintura per legare meglio il giubbotto di salvataggio perché ho pensato che se si sfilava ero morto. Come molti alpini, io non sapevo nuotare... Quando è arrivato il siluro ci fu un boato terribile, la nave sbandò subito... Il sergente urlava “si salvi chi può”, il comandante diceva “calma, ragazzi, non ho dato l’ordine di abbandono”. Acqua e fumo dappertutto. Chi piangeva, chi cercava una scialuppa che non c’era. Tutti pensavano a salvare se stessi. Io pregavo Sant’Antonio e a un certo punto mi sono tuffato, sbagliando, perché le onde mi riportavano su. Ci ho provato tre volte...».

La zattera

Alla terza Pietrobon è riuscito a prendere il mare ed è iniziata la notte più lunga della sua vita. «L’acqua era gelida ma io pensavo solo a prendere qualcosa che galleggiasse». Nel buio di un mare che ogni tanto veniva illuminato dai fulmini. L’inferno.

Fino a quando, dopo diverse ore, all’albeggiare, apparve un zattera. «Piccolissima. C’erano sopra due naufraghi e tutto intorno, aggrappati, molti altri. Saranno state una ventina di persone, ogni tanto se ne staccava una perché perdeva le forze e spariva. Quando arrivò la torpediniera Mosto a prenderci eravamo rimasti in tre». Ore 14.15 del 29 marzo 1942. La nave era stata silurata alle 22.45 del giorno prima: sedici ore sospese fra la vita e la morte. «Penso di avercela fatta solo perché avevo braccia forti, da contadino».

«Non posso dimenticare»

Prima di partire per la guerra, Pietrobon, un pezzo d’uomo, alto, forte, lavorava da mezzadro e amava il pugilato. Quando tornò, nella confusione di quegli anni, riprese a coltivare, poi fece il mugnaio, anche l’operaio metalmeccanico ma senza mai lasciare i campi che ancora circondano la sua casa, fra oche e galline e qualche vigna di prosecco oggi curata dal figlio Silvano. La campagna friulana e quella nave che l’ha accompagnato per settant’anni. «Non posso dimenticare. Da allora ogni mattina io penso almen per qualche secondo a quella notte, alle urla. Una guerra inutile fra povera gente fatta ai greci per un capriccio di Mussolini. E ogni giorno ringrazio anche il Cielo per avermi risparmiato la vita». Se per caso non lo facesse, a ricordarglielo c’è l’affresco e le molte cose che fra queste mura parlano del naufragio, tipo la benedizione di papa Wojtyla. «Per dimenticare tutto devo morire. Ma fino a che son qui il Galilea ci sarà sempre».

Lo guarda, stringe gli occhi, tace. Mentre la moglie lo tiene d’occhio dalla finestra: «Dai Onorino, adesso basta».


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