il dovere di
mantenere viva la memoria
14 maggio 2019
Il 19 maggio
2019 la Grecia commemora i 100 anni dal genocidio della popolazione greca del
Ponto. Convegni e manifestazioni hanno preso il via all’inizio dell’anno e per
tutto il 2019 si continuerà a fare memoria su questa tragica pagina di Storia,
spesso ancora poco nota a chi non ha una famiglia di origini anatoliche.
All’estero,
dei greci del Ponto si sa ancora meno che in Grecia. Come gli armeni e gli
assiri – vittime dello stesso piano di sterminio – erano una minoranza
cristiana, quantificabile in circa 700 mila individui all’inizio del Novecento.
Le terre in cui vivevano erano la loro patria da oltre 2500 anni. Per la
precisione, da quel lontano 785 a.C. quando alcuni abitanti di Mileto, partiti
dalla Ionia, fondarono la prima colonia greca sulle coste del Mar Nero. I
turchi giunsero in Anatolia ben più tardi, intorno all’anno Mille dopo Cristo,
conquistando gradualmente il territorio che nel frattempo era divenuto
bizantino. L’ultimo baluardo della resistenza greca fu Trebisonda, capitale
dell’Impero dei Comneni che si estendeva nella regione del Ponto. La città
cadde in mano turca nel 1461, cioè otto anni dopo Costantinopoli.
Per secoli,
i greci del Ponto hanno piegato la testa, cercando un modus vivendi pacifico
con i musulmani. I cristiani non godettero mai delle stesse prerogative
riservate ai musulmani, ma riuscirono a sopravvivere e ad avere una discreta
prosperità. Questo equilibrio iniziò a incrinarsi a partire dalla fine del XIX
secolo, quando l’emergere dei nazionalismi, la progressiva disgregazione
dell’Impero Ottomano e poi lo scoppio della Prima guerra mondiale portarono i
turchi a percepire i loro connazionali di origine ellenica come dei potenziali
nemici in casa. «Sbarazziamoci dei cristiani per essere padroni a casa nostra»,
tuonava il deputato Feyzi Pirinççizade in un discorso tenuto a Mardin il 15
maggio 1915. E così avvenne: dapprima furono eliminati gli armeni, poi i greci
del Ponto, gli assiri e infine tutti i greci anatolici. Dei discendenti dei
milesi lungo le sponde del Mar Nero rimasero in vita meno della metà: 353 mila
persone furono trucidate o morirono durante gli anni della persecuzione, tra il
1915 e il 1923.
Fu una sorta
di fulmine a ciel sereno: mia nonna Eratò, originaria di Ordu (Kotyora in
greco) e sopravvissuta al genocidio, raccontava di buoni rapporti con i vicini
turchi. I greci del Ponto capirono di essere in pericolo quando nel 1915 iniziò
la persecuzione degli armeni. I loro timori si rivelarono, purtroppo, giusti.
Mentre gli uomini dai 15 ai 65 anni venivano deportati nei battaglioni di
lavoro, donne, bambini e anziani rimasti nei villaggi furono rinchiusi in chiese
e abitazioni alle quali veniva appiccato il fuoco. In altri casi, furono
condotti sui monti del Ponto in lunghe marce della morte. Il piano venne
avviato dapprima dai vertici dell’Impero Ottomano, poi fu lo stesso Mustafà
Kemal a farlo entrare in una fase decisiva dopo il 19 maggio 1919. A questa
data è legata la commemorazione dei cent’anni dal genocidio. I sopravvissuti al
massacro rientrarono nel programma di scambio di popolazioni sancito dal
Trattato di Losanna (1923), costretti ad andarsene privi di tutto, eccetto la
vita. Come è avvenuto in altri genocidi, i greci del Ponto furono di fatto
sterminati anche per motivi economici: i turchi si appropriarono delle case,
dei terreni, delle imprese e del denaro.
Dal 2007, il
massacro dei greci del Ponto, come quello degli altri cristiani dell’Anatolia,
è stato riconosciuto come genocidio dall’International Association of Genocide
Scholars (Iags). Tutti i governi turchi, dal 1923 a oggi, hanno invece respinto
l’accusa di genocidio, negando i fatti e le gravi responsabilità di coloro che
li commisero. Al massacro delle persone, è seguito un genocidio culturale: ogni
traccia della presenza greca nel Ponto è stata cancellata, le chiese sono state
per lo più distrutte o trasformate in moschee, i cimiteri sono stati devastati.
Della millenaria presenza dei greci dei Ponto sulle coste del Mar Nero
sopravvivono la lingua, la cultura, i ricordi - tramandati di generazione in
generazione -, e il dovere morale, per noi discendenti dei sopravvissuti, di
mantenere viva la memoria delle 353 mila vittime, che non hanno avuto neppure
il diritto a una tomba.
Maria
Tatsos, giornalista e scrittrice, autrice del romanzo storico “La ragazza del
Mar Nero”, di origine greca del Ponto
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