Sono 8500 le persone che secondo i dati diffusi dalle
autorità greche, saranno trasferite verso centri allestiti da Atene in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifugiati. Una circolare interna della polizia greca parlerebbe di un piano di evacuazione di diversi giorni.
IDOMENI - È iniziato alle prime ore di questa mattina lo sgombero della “giungla” di Idomeni, il più grande campo profughi d’Europa, addossato al filo spinato del confine greco-macedone. 8500 persone, secondo i dati diffusi dalle autorità greche, saranno trasferite verso centri allestiti da Atene in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifugiati.Una circolare interna della polizia greca, ottenuta da media locali, parlerebbe di un piano di evacuazione di diversi giorni, per cui sarebbero state mobilitate dieci unità di polizia e mezzi dell’esercito. Dal pomeriggio di ieri tutta la zona è considerata area militare, e l'accesso di media e volontari, che da un anno circa offrivano servizi essenziali agli abitanti del campo, è stato vincolato a rigide autorizzazioni. Non è comunque consentito riprendere e fare fotografie.
Nella notte centinaia di poliziotti pronti ad entrare. Annunciata, negli ultimi giorni, da diversi voli di ricognizione in elicottero, e da annunci in arabo che invitavano tutti gli ospiti del campo a lasciare la zona, l'operazione è partita nella notte. Centinaia di poliziotti in assetto antisommossa hanno circondato l’area della stazione di Idomeni, attorno a cui è nato l'accampamento, che a marzo è arrivato ad ospitare oltre 15mila persone, creando un cordone lungo i confini della tendopoli. Almeno dieci autobus sono entrati nella zona, pronti a trasferire le persone verso altre destinazioni.
“Dove ci porteranno? In Turchia o Siria?”. Lo dice preoccupata una donna, curda di Afrin, nel nord della Siria, mentre i due figli indicano gli agenti, seminascosti nell’erba alta ad alcune decine di metri di distanza. “Volevo andare a scuola”, spiega una bambina, arrivata correndo da uno dei tendoni allestiti dai volontari, “ma era piena di poliziotti”. Fra gli abitanti del campo, in grande maggioranza siriani, curdi, afghani e irakeni, seguiti da palestinesi, pakistani, egiziani e algerini, c'è chi urla da una tenda all’altra “Almanya”, Germania, con un'ironia mista a speranza, e chi, più realisticamente, parla di Salonicco come possibile meta. La città portuale, a 70 chilometri da Idomeni, è infatti circondata da diverse tendopoli ufficiali, già in gran parte piene dopo la progressiva partenza da Idomeni di alcune migliaia di persone, attirate nell’ultimo mese dal miraggio del programma di “relocation”, che dovrebbe portare in altri stati europei tutti i siriani e gli irakeni arrivati in Grecia prima del 20 marzo scorso.
La sfiducia in istituzioni inattendibili. A prevalere, nei discorsi attorno alle tende e nei vagoni soffocanti dei treni abbandonati sui binari, è un'incertezza alimentata dalla mancanza di informazioni e da una sfiducia sedimentata nei mesi verso istituzioni percepite come lontane e inattendibili. La stessa sfiducia che si respira nei confronti della procedura di registrazione per l'asilo e per la relocation in Grecia, affidata a un contatto via Skype - un unico numero per quasi 50mila persone - che pare pressoché impossibile raggiungere. I primi a vincere, in questo vuoto informativo, sono stati i trafficanti, i cui affari hanno già avuto un’impennata dopo la chiusura del confine con la Macedonia e il sigillamento delle frontiere ufficiali dei paesi balcanici.
In marcia lungo i binari del treno. Sono almeno 200 le persone che ieri sera, in una marcia di diversi chilometri lungo i binari e attraverso le foreste che segnano il confine, hanno tentato di raggiungere la Macedonia. Famiglie siriane, afgane e curde, bloccate a Idomeni da tre mesi che, alle prime notizie dello sgombero, hanno deciso di consegnare i pochi risparmi rimasti a scafisti di terra, con il miraggio di raggiungere Belgrado e, da lì, Ungheria e Germania. Un’illusione spentasi nel cuore della notte, quando il gruppo è stato avvistato dalla polizia macedone. Il viaggio - o, come lo chiamano molti siriani passati dalla Turchia, il “caciuk”, caciucco, come la barca su cui i trafficanti li hanno fatti salire, è comunque sulla bocca di molti. Per Majed, ingegnere informatico di Aleppo, “l’unica via è la ‘mafia’, quella che ci ha salvato la vita portandoci fuori dalla Siria, dalle bombe che non ci hanno lasciato nulla”. Ali, fotografo curdo, dice di voler “comprare una carta d'identità europea da alcuni bulgari, che qua dominano il mercato dei documenti falsi, per imbarcarmi per l'Italia, in traghetto, e arrivare dai miei parenti in Olanda”.
"Questi soldati mandateli in Siria a portare pace, non qui". Diversi, soprattutto i giovani siriani, pensano anche di tornare in Turchia, o addirittura in Siria. “Qui non so più cosa mi succede, sono talmente confuso”, spiega Abdellah, ex-studente che ha partecipato alle prime proteste contro il regime di Assad. “Sono di Deir Azzor, e lì sei in mezzo fra Daesh e il regime, se non vuoi stare con nessuno dei due sei un uomo morto”. Mentre beve una birra con gli amici, “con cui abbiamo condiviso il sogno di una Siria libera dalla dittatura, pagandolo fino all’ultimo”, Abdellah guarda dal finestrino del treno, su cui ha vissuto per gli ultimi tre mesi. Agenti in divisa mimetica sfilano con passo deciso, aggiungendosi al cordone formato attorno alla tendopoli. “Vorrei che tutti questi soldati”, dice che un sorriso amaro, “andassero in Siria per riportare la pace, non qui da noi, che cerchiamo pace e sicurezza”.
Entro cinque giorni, tutti via. Diviso in zone dalla polizia, il campo dovrebbe essere evacuato entro cinque giorni, un’area dopo l'altra. Qualcuno però, soprattutto le famiglie numerose, lascia mestamente le tende in cui, per settimane, ha vissuto il sogno di una vita migliore. C'è chi si incammina a piedi, chiamando poi un taxi per raggiungere patenti e amici in altri centri, quelli spontanei sorti lungo la strada statale, a pochi chilometri da qui, o quelli governativi. I primi bus predisposti dalla polizia si riempiono lentamente, preparandosi a raggiungere i centri di Cherso, Oreokastro, Lagadigkia, l’hotspot di Diavala e altre decine di tendopoli in tutta la Grecia, in cui le condizioni sono generalmente migliori ma, secondo molte testimonianze, mancano tutti quei servizi garantiti a Idomeni da volontari accorsi da tutto il mondo, dalla scuola a presidi medici stabili e sportelli legali. A mancare, soprattutto, per i 46mila rifugiati residenti in Grecia, sembra essere la certezza, e la speranza, che prima
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