Non si
impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o
gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due
popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale.
La lingua latina
o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta
esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei
ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di
esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati
oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino
sedici ore filate, se da bambino non avesse «coattivamente», per «coercizione
meccanica» assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare
anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per
avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran
nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno.
Il latino
non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a
studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere
ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il
latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in
un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così
graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco
e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la
nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati
equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino
all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte
maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici
immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se
«istruttivo», cioè ricco di nozioni concrete.
Nella scuola
moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la
scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse
pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente
disinteressata. La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e
viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a
perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal
fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a
perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale.
Se si vuole
spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di
scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria
(elementare-media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta
professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di
studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di
scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma
siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che
nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica,
intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio
qualificato, ma che ogni “cittadino” può diventare “governante” e che la
società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo
diventare.
Anche lo
studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche
nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un
abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più
larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a
domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia
artificiale, perchè sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro
manuale. È una quistione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia
tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di
adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi
punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per
le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno
entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già
sviluppato per la vita dei campi.
Ecco perchè
molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a
loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità
il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco.
In una nuova situazione politica, queste quistioni diventeranno asprissime e
occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo
senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali,
fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha
sviluppato le attitudini psico-fisiche adeguate, si dovranno superare
difficoltà inaudite.
[A. Gramsci,
Quaderni dal Carcere, 4 [XIII], 55]
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