Da Intervista con la storia, 1974 di Oriana Fallaci
Quel giorno aveva il volto di un Gesù crocifisso dieci volte e sembrava più vecchio dei suoi trentaquattro anni. Sulle sue guance pallide si affondavano già alcune rughe, tra i suoi capelli neri spiccavano già ciuffi bianchi, e i suoi occhi eran due pozze di malinconia. O di rabbia? Anche quando rideva, non credevi al suo ridere. Del resto era un ridere forzato e che durava poco: quanto lo scoppio di una fucilata. Subito le sue labbra tornavano a serrarsi in una smorfia amara e in quella smorfia cercavi invano il ricordo della salute e della gioventù. La salute l’aveva persa, insieme alla gioventù, il momento in cui era stato legato per la prima volta al tavolo delle torture e gli avevano detto: «Ora soffrirai tanto che ti pentirai d’essere nato». Ma capivi subito che non si pentiva d’essere nato: non se n’era mai pentito e non se ne sarebbe mai pentito. Capivi subito che era uno di quegli uomini per cui anche morire diventa una maniera di vivere, tanto spendono bene la vita. Né le sevizie più atroci, né la condanna a morte, né tre notti trascorse in attesa della fucilazione, né il carcere più disumano, cinque anni dentro una cella di cemento di un metro e mezzo per tre, l’avevano piegato. Due giorni prima, uscendo da Boiati con la grazia che Papadopulos aveva concesso insieme all’amnistia per trecento prigionieri politici, non aveva detto una sola parola che gli servisse ad esser lasciato in pace. Anzi aveva dichiarato, sprezzante: «Non l’ho chiesta io, la grazia. Me l’hanno imposta loro. Io son pronto a tornare in prigione anche subito». Infatti chi gli voleva bene temeva per la sua incolumità quanto e più di prima. Fuori del carcere era troppo scomodo pei colonnelli. Le tigri in libertà sono sempre scomode. Alle tigri in libertà si spara. Oppure gli si tende una trappola per richiuderle in gabbia. Quanto a lungo sarebbe rimasto all’aria aperta? Ecco la prima cosa che pensai quel giovedì 23 agosto 1973 vedendo Alessandro Panagulis.
Alessandro
Panagulis. Alekos per gli amici e per la polizia. Nato nel 1939 ad Atene da
Atena e Basilio Panagulis colonnello dell’esercito e pluridecorato nella guerra
dei Balcani, nella prima guerra mondiale, nella guerra contro i turchi in Asia
Minore, nella guerra civile fino al 1950. Secondogenito di tre fratelli
straordinari, democratici e antifascisti. Fondatore e capo di Resistenza Greca,
il movimento che i colonnelli non riuscirono mai a distruggere. Autore
dell’attentato che per un pelo, il 13 agosto 1967, non costò la vita a
Papadopulos e la fine della Giunta. Per questo lo arrestarono, lo seviziarono,
lo condannarono a morte: pena da lui stesso sollecitata in un’apologia che per
due ore tenne i giudici col fiato sospeso. «Voi siete i rappresentanti della
tirannia e so che mi manderete dinanzi al plotone di esecuzione. Ma so anche
che il canto del cigno di ogni vero combattente è l’ultimo singulto dinanzi al
plotone di esecuzione.» Quel processo indimenticabile. Non s’era mai visto un
accusato trasformarsi in accusatore, così. Giungeva in aula con le mani
ammanettate dietro la schiena, i poliziotti gli toglievano le manette e lo
serravano in una morsa cieca agguantandolo alle spalle, alle braccia, alla
vita, ma lui balzava in piedi lo stesso, con l’indice teso, a gridare il suo
sdegno. Non lo giustiziarono per non farne un eroe. E va da sé che lo divenne
ugualmente perché morire, a volte, è più facile che vivere come viveva lui. Lo
trasportavano da una prigione all’altra dicendo: «Il plotone di esecuzione ti
aspetta». Entravano nella sua cella e lo massacravano di botte. E per undici
mesi lo tennero ammanettato, giorno e notte, malgrado i polsi gli fossero
andati in putrefazione. A periodi, poi, gli impedivano di fumare, di leggere,
di avere un foglio e una matita per scrivere le sue poesie. E lui le scriveva
lo stesso, su minuscoli fogli di cartavelina, usando il suo sangue per
inchiostro. «Un fiammifero per penna / sangue gocciolato in terra per
inchiostro / l’involto di una garza dimenticata per foglio / Ma cosa scrivo? /
Forse ho solo il tempo per il mio indirizzo / Strano, l’inchiostro s’è
coagulato / Vi scrivo da un carcere / in Grecia.» Riusciva anche a mandarle
fuori dalla prigione, quelle belle poesie scritte col sangue. Il suo primo
libro aveva vinto il Premio Viareggio ed era ormai un poeta riconosciuto,
tradotto in più di una lingua, e sul quale si scrivevano saggi, analisi
concettose da storia della letteratura. Ma più che un poeta era un simbolo. Il
simbolo del coraggio, della dignità, dell’amore per la libertà. E tutto questo
mi turbava, ora che me lo trovavo dinanzi. Come si saluta un uomo che è appena
uscito da una tomba? Come si parla a un simbolo? E mi mordevo le unghie,
nervosa: me ne ricordo perfettamente. Me ne ricordo perché di quel giovedì 23
agosto ricordo tutto. Lo sbarco ad Atene. Il timore di non trovarlo sebbene gli
avessi fatto annunciare il mio arrivo. La ricerca di via Aristofanos, nel
quartiere di Glifada, dov’era la sua casa: il tassista che finalmente scorge la
villetta e si mette a gridare facendosi il segno della croce. Il pomeriggio
afoso, i miei vestiti appiccicati al corpo. La folla dei visitatori che
gremisce il giardino, la terrazza, ogni angolo della villetta. Gli altri
giornalisti, le voci, le spinte. E lui che siede nel mezzo del caos con quel
volto di Cristo.
Aveva
un’aria molto stanca, anzi esausta. Però appena mi vide si alzò, col balzo di
un gatto, e corse ad abbracciarmi come se mi conoscesse da sempre. Se non mi
conosceva da sempre, del resto, ci conoscevamo già. Nei periodi in cui gli
consentivan di leggere qualche giornale, mi avrebbe narrato, gli avevo fatto
compagnia coi miei articoli. E lui mi aveva fatto coraggio col semplice fatto
di esistere, essere ciò che era. Così la preoccupazione di dover fronteggiare
un simbolo anziché un uomo svanì. Restituii l’abbraccio dicendo «ciao», lui
replicò «ciao» e non vi furono altre parole di benvenuto o felicitazione.
Semplicemente aggiunsi: «Ho ventiquattr’ore per stare ad Atene e preparar
l’intervista. Subito dopo devo partire per Bonn. C’è un angolo dove si possa
lavorare tranquilli?». Annuì in silenzio e poi, solcando la folla dei
visitatori, mi condusse in una stanza dov’eran molte copie di un mio libro in
greco. Oltre a quelle c’era un mazzo di rose rosse che mi aveva mandato fino
all’aeroporto e che poi erano tornate indietro perché l’amico incaricato di
ricevermi non m’aveva trovato. Commossa, ringraziai bruscamente. Ma lui capì il
tono brusco perché, per un attimo, la malinconia gli scomparve dagli occhi e le
sue pupille ebbero un lampo di divertimento che mi smarrì di nuovo. Era un
lampo che ti faceva intuire una selva di tenerezze e furori in contrasto fra
loro, un’anima senza pace. Sarei riuscita a capire quell’uomo?
Cominciammo
l’intervista. E immediatamente mi colpì la sua voce che era seducentissima, dal
timbro fondo, quasi gutturale. Una voce per convincer la gente. Il tono era
autorevole, calmo: il tono di chi è molto sicuro di sé e non ammette repliche a
ciò che dice in quanto non ha dubbi su ciò che dice. Parlava, ecco, come un
leader. Parlando fumava la pipa che praticamente non staccava mai dalla bocca.
Così avresti detto che la sua attenzione era concentrata su quella pipa, non su
di te, e questo gli conferiva una certa durezza che intimidiva perché non si
trattava di una durezza recente, cioè maturata dagli strazi fisici e morali,
bensì di una durezza nata con lui: grazie alla quale aveva potuto vincere gli
strazi fisici e morali. Allo stesso tempo era premuroso, gentile, e restavi
come smarrito quando, con virata improvvisa, sai la virata di un motoscafo che
procede dritto e di colpo si gira per tornare indietro, tanta durezza si
rompeva in dolcezza: struggente come il sorriso di un bimbo. Il modo in cui ti
versava la birra, ad esempio. Il modo in cui ti toccava una mano per
ringraziarti di un’osservazione. Ciò gli cambiava i lineamenti del volto che,
non più doloroso, diventava indifeso. Di volto non era bello: con quegli occhi
piccoli e strani, quella bocca grande e ancora più strana, quel mento corto,
infine quelle cicatrici che lo sciupavano tutto. Alle labbra, agli zigomi.
Eppure ben presto ti sembrava quasi bello: di una bellezza assurda,
paradossale, e indipendente dalla sua anima bella. No, forse non lo avrei mai
capito. Decisi da quel primo incontro che l’uomo era un pozzo di
contraddizioni, sorprese, egoismi, generosità, illogicità che avrebbero sempre
chiuso un mistero. Ma era anche una fonte infinita di possibilità e un
personaggio il cui valore andava oltre quello del personaggio politico. Forse
la politica rappresentava solo un momento della sua vita, solo una parte del
suo talento. Forse, se non lo avessero ammazzato presto, se non lo avessero
rimesso in gabbia, un giorno avremmo sentito parlare di lui per chissà quali
altre cose.
Quante ore
restammo nella stanza coi libri e coi fiori a parlare? È l’unico particolare
che non ricordo. Non ti accorgi del tempo che passa se ascolti ciò che narrava
lui. La storia delle torture, anzitutto, l’origine delle sue cicatrici. Ne
aveva dappertutto, mi disse. Mi mostrò quelle sulle mani, sui polsi, sulle
braccia, sui piedi, sul costato. Qui stavano esattamente dove stanno le ferite
di Cristo: all’altezza del cuore. Gliele avevano inflitte alla presenza di
Costantino Papadopulos, il fratello di Papadopulos, con un tagliacarte
scheggiato. Però me le mostrava con distacco, nessuna autocommiserazione: lo
irrigidiva un autocontrollo eccezionale, quasi crudele. Tanto più crudele
quando ti accorgevi che i suoi nervi non erano usciti intatti dai cinque anni
d’inferno. E questo lo raccontavano i suoi denti quando mordeva la pipa, lo
raccontavano i suoi occhi quanto si appannavano in lampi di odio o di muto
disprezzo. Pronunciando il nome dei suoi seviziatori, infatti, si isolava in
pause impenetrabili e non rispondeva nemmeno a sua madre che entrava chiedendo
se volesse ancora una birra o un caffè. Sua madre entrava spesso. Era vecchia,
vestita di nero come le vedove che in Grecia non abbandonano il nero, e il suo
viso era una ragnatela di rughe profonde come i suoi dolori. Il marito morto di
crepacuore mentre Alekos era in prigione. Il figlio maggiore scomparso. Il
terzo figlio in prigione. Del resto era stata in prigione anche lei, per
quattro mesi e mezzo. Ma nemmeno lei eran riusciti a piegare. Né con le minacce
né con i ricatti. In una lettera a un giornale di Londra, una volta aveva
scritto dei figli: «Gli alberi muoiono in piedi». Gli alberi erano i suoi
figli. Un albero era morto quasi sei anni prima: Giorgio.
Da quasi sei
anni nessuno sapeva più nulla di Giorgio, il fratello maggiore che aveva
seguito la carriera del padre raggiungendo il grado di capitano. Nell’agosto
del 1967 Giorgio aveva rifiutato di restar nell’esercito greco e, come Alekos,
aveva disertato. Attraverso il fiume Evros era fuggito in Turchia dove aveva
raggiunto Istanbul per cercare asilo presso l’ambasciata italiana. Per nostra
vergogna, l’ambasciata italiana gli aveva negato l’asilo: tergiversando sulla
necessità di informare il governo turco, poi il governo italiano, poi non si sa
chi. Giorgio era fuggito di nuovo, stavolta in Siria, e a Damasco s’era ancora
rivolto all’ambasciata italiana che s’era comportata nello stesso modo.
Tuttavia un’ambasciata più degna, un’ambasciata scandinava, lo aveva ospitato e
qui era rimasto un mese: fino al giorno in cui era uscito per strada e la
polizia siriana lo aveva scoperto senza passaporto. Fuggito anche alla polizia
siriana, aveva raggiunto il Libano. Dal Libano avrebbe voluto imbarcarsi per
l’Italia, ma non lo aveva fatto perché i paesi arabi riconoscevano la Grecia
dei colonnelli. Aveva preferito entrare in Israele, paese che con la Grecia dei
colonnelli non aveva rapporti diplomatici, per recarsi in Italia imbarcandosi a
Haifa. E a Haifa, invece, gli israeliani lo avevano arrestato. Giorgio s’era
fidato di loro, aveva detto chi era, e loro lo avevano arrestato: per
consegnarlo al governo greco. Non gli avevano dedicato nemmeno un processo.
Semplicemente, lo avevano caricato su una nave greca che faceva la spola tra
Haifa e il Pireo: l’Anna Maria. E a questo punto si perdevano le sue tracce.
Sembra che Giorgio fosse ancora nella cabina prima che la nave entrasse nel
tratto di mare compreso tra Egira e il Pireo. Ma, quando la nave s’era
avvicinata al porto, la cabina era vuota. Fuggito saltando giù dall’oblò?
Scaraventato da qualcuno fuori dall’oblò? Il suo corpo non sarebbe stato mai
ritrovato. Ogni tanto il mare restituiva un cadavere, le autorità convocavano
Atena per vedere se lo riconoscesse, e Atena rispondeva: «No, non è mio figlio
Giorgio».
A una certa
ora della notte interrompemmo l’intervista. La folla dei visitatori s’era
dispersa e Atena m’aveva offerto ospitalità per la notte. Aveva preparato anche
il pranzo, sulla tovaglia migliore. Alekos appariva meno teso, meno solenne, e
presto schiuse una porta delle sue infinite sorprese: lasciandosi andare a una
conversazione scherzosa. Definiva la sua cella, ad esempio, “la mia villa di
Boiati”, e la descriveva come una villa lussuosissima, con piscine aperte e
scoperte, campi da golf, cinema privati, scintillanti saloni, uno chef che
comprava il caviale fresco in Iran, le odalische che danzavano e lucidavano le
manette. In un tal paradiso, una volta, aveva fatto lo sciopero della fame
“perché il caviale non era fresco e non era grigio”. E poi, con lo stesso tono,
illustrava la sua “arcinota amicizia” con Onassis, Niarcos, Rockefeller, Henry
Kissinger, o descriveva i “suoi jet personali”, lo yacht che il giorno avanti
aveva “prestato ad Anna d’Inghilterra”. Ed io non credevo ai miei occhi, ai miei
orecchi. Possibile che nella tomba di cemento egli fosse riuscito a salvare il
suo humour, la capacità di ridere? Possibile, anzi indiscutibile. Però, quando
dopocena riprendemmo a parlare per l’intervista, Alekos tornò ad essere serio
ed a mordere nervosamente la pipa. Parlammo, stavolta, fino alle tre del
mattino e, alle tre e mezzo, caddi esausta sul letto che m’avevano preparato
nel soggiorno. Sopra il letto c’era la fotografia di Basilio, nella sua
uniforme di colonnello, e la cornice grondava medaglie d’oro, d’argento, di
bronzo: testimonianza delle varie campagne combattute fino al 1950. Accanto al
letto, invece, una fotografia di Alekos quando era studente di ingegneria al
Politecnico e membro del Comitato centrale della Federazione giovanile del
partito «Unione di Centro». Un visino intelligentissimo e arguto, a quel tempo
privo di baffi, che non mi aiutava a penetrare un mistero. Allora ricordai
d’aver visto, nella stanza accanto, le fotografie dei due fratelli bambini. Mi
alzai e le studiai. Quella di Giorgio raccontava un bambino elegante e
compunto, educatamente seduto su un velluto rosso. Quella di Alekos invece
mostrava un tigrotto dal cipiglio arrabbiato e che, ritto sul velluto rosso, in
un annuncio di indipendenze anarchiche, sembrava dire: “No e poi no! Seduto su
quel coso io non ci sto!”. Il costumino di maglia pendeva sbrindellato a
dimostrare che del suo aspetto esteriore lui se ne fregava dunque era inutile
che la mamma lo rimproverasse, lo pregasse, lui faceva lo stesso ciò che voleva.
E, quasi a dimostrare ogni rifiuto ai consigli, agli ordini, agli interventi
altrui, la manina destra si appoggiava, con orgoglio e provocazione, sul
fianco; la sinistra reggeva i pantaloncini nel punto in cui un bottone era
schizzato via. Quanto rimasi a studiare quelle fotografie? Questo, davvero non
lo ricordo. Però ricordo che a un certo punto la mia attenzione fu attratta da
un’altra cosa: un oggetto rettangolare e coperto di polvere. E lo presi in mano
con la sensazione di penetrare un segreto, e scoprii che era una Bibbia del
seicento, con un documento che ne attribuiva la proprietà ad Alekos Panagulis.
Ma era un documento vecchio di trecent’anni e questo Alekos era un bisnonno che
aveva combattuto come guerrigliero contro i turchi. Avrei saputo più tardi che,
dal 1600 al 1825, la famiglia Panagulis non aveva fornito che eroi. Alcuni si
chiamavano Jorgos, cioè Giorgio, come il giovane Jorgos che era morto nella
battaglia di Faliero nel 1823. Ma la maggior parte di essi si chiamava Alekos.
L’indomani
partii per Bonn. E va da sé che non fu una partenza definitiva. Accompagnandomi
all’aeroporto, Alekos m’aveva fatto promettere che sarei tornata e, pochi
giorni dopo, quando lui era ricoverato all’ospedale, tornai: scoprendo cose che
aiutavano un poco a diradare i segreti della sua inafferrabile personalità. La
lunga poesia, anzitutto, che m’avrebbe dedicato. Si intitolava Viaggio e
narrava di una nave partita per un viaggio senza soste, una nave che non cedeva
mai alla tentazione o al bisogno di attraccare in un porto, di avvicinarsi a
una riva, di gettare l’àncora insomma. La ciurma lo reclamava, a volte lo
implorava, ma il comandante le resisteva come alla tempesta: continuando a
inseguire una luce. La nave era lui, Alekos. Ed anche il comandante era lui,
anche la ciurma. Il viaggio era la sua vita. Un viaggio che si sarebbe concluso
soltanto con la morte perché l’àncora non sarebbe mai stata gettata. Né
l’àncora degli affetti, né l’àncora dei desideri, né l’àncora di un meritato
riposo. E nessun ragionamento, nessuna lusinga, nessuna minaccia avrebbe potuto
indurlo al contrario. Così, se credevi a quella nave, se tenevi a quella nave,
non dovevi cercar di trattenerla, fermarla col miraggio di sponde verdi,
paradisi terrestri. Dovevi lasciarla andare per il pazzo viaggio che s’era
scelto e che, nella selva delle sue contraddizioni, era il punto fermo di una
coerenza assoluta. «Anche Ulisse alla fine si riposa. Raggiunge Itaca e si
riposa» osservai dopo avere letto la poesia. E lui mi rispose: «Povero Ulisse».
Poi mi porse un’altra poesia che incominciava così: «Quando sbarcasti a Itaca /
quale infelicità avrai provato, Ulisse / Se altra vita avevi dinanzi / perché
arrivare tanto presto?». Credo di essergli diventata veramente amica quel
giorno, ascoltandolo all’ospedale. Infatti mi recai altre volte ad Atene e
pazienza se, ogni volta, le autorità greche erano meno contente. Pur non osando
negarmi il permesso di entrata, la polizia di frontiera riempiva per me fogli
che non riempiva mai per nessuno e, durante il mio soggiorno ad Atene, si
occupavano scrupolosamente della mia persona. Cosa non difficile, visto che
abitavo nella casa di via Aristofanos dove il telefono era controllato e dove
quattro poliziotti in uniforme, chissà quanti altri in borghese, sorvegliavano
ogni porta, ogni finestra, la stessa strada, ventiquattro ore su ventiquattro.
Psicologicamente,
era come se Alekos fosse ancora in prigione ed io ci fossi entrata con lui. Una
volta mi accompagnò a Creta, per cinque giorni. E per cinque giorni fummo
costantemente seguiti, spiati, provocati. Ad Heraclion, dov’eravamo andati per
visitare Cnosso, le automobili della polizia ci tamponavano a mezzo metro di
distanza. Entravamo in un ristorante a mangiare e loro si piazzavano lì, ad
aspettarci. Entravamo in un museo e loro si piazzavano lì, ad aspettarci.
Spesso, poi, ce le vedevamo venire incontro dalla direzione opposta perché eran
forniti di radio e si davano il cambio. Un incubo. All’aeroporto di Xania venni
insultata da un agente in borghese. Sull’aereo che ci riportava ad Atene fummo
relegati negli ultimi due sedili e tenuti sotto controllo per l’intero viaggio.
Di nuovo ad Atene, non potevamo permetterci il piacere di una cena al Pireo
senza che un poliziotto ci raggiungesse, ben presto, per starci alle calcagna.
Ci tormentarono perfino ai funerali di un ministro democratico morto per
infarto cardiaco e, inutile dirlo, Papadopulos non mi concesse mai l’intervista
che secondo l’ambasciata greca di Roma sembrava disposto a darmi. Peccato.
Sarebbe stato divertente chiedere al signor Papadopulos cosa intendeva per
democrazia. Ed anche per amnistia. Sarebbe stato ancor più divertente narrargli
che, ovunque andasse, Alekos era accolto come un eroe nazionale. La gente lo
fermava per strada abbracciandolo e magari tentando di baciargli la mano. I
tassisti lo facevan salire anche nei punti proibiti. Gli automobilisti
fermavano il traffico per salutarlo. E non di rado, nei bar, non volevano che
pagasse il conto. Insomma erano tutti per lui e con lui, solo chi era al
servizio dei colonnelli era contro di lui. Ed io seguivo lo straordinario
fenomeno comprendendo finalmente un poco la difficile creatura che ne era
oggetto. Intuendone meglio, ad esempio, i disgusti e le infelicità, la sete di
una pace che non sarebbe mai giunta e che si manifestava attraverso esplosioni
di collera disperata e disperante, o inutili audacie, o telefonate rabbiose
all’uomo forte del regime, Joannidis, per sfidarlo ad arrestarlo di nuovo.
Oppure seguendone le astuzie da Ulisse, le fulminanti intuizioni da Ulisse cui
assomigliava sempre di più in ogni senso. E le lacrime che gli riempivano gli
occhi quando guardava l’Acropoli, simbolo per lui di tutto ciò in cui credeva.
E i suoi silenzi cupi. E gli slanci di allegria che lo scuotevano tutto in una
gioventù ritrovata per qualche ora, per qualche minuto. E le improvvise risate
di fanciullo, gli imprevedibili scherzi subito cancellati da quei suoi
voltafaccia d’umore. E il pudore esagerato, anzi puritano, che opponeva alle
donne quando gli si offrivano con biglietti amorosi, inviti aperti,
strattagemmi volpini. Del resto, sia delle sue avventure passate come dei suoi
sentimenti presenti non confidava mai nulla a nessuno: “Un uomo serio non lo
fa”. Timido, testardo, orgoglioso, era mille persone dentro una persona sola
che non potevi mai rinunciare ad assolvere. Che gioia udirlo dire, a proposito
del suo attentato: «Io non volevo uccidere un uomo. Io non sono capace di
uccidere un uomo. Io volevo uccidere un tiranno».
Nel
frattempo, egli aveva chiesto il passaporto. Ma nemmeno ottenere i documenti
necessari alla richiesta gli era stato facile. A qualsiasi ufficio si
rivolgesse trovava ostacoli sordi, kafkiani. Presso il comune di Glifada, ad
esempio, non risultava che fosse nato. Improvvisamente il suo nome mancava dai
registri. C’era il nome di Atena e il suo no. Lui ne rideva, con malcelata
amarezza: «Non sono nato, vedi. Non sono mai nato». Ma una mattina tornò
saltando di gioia e: «Sono nato! Sono nato!». Chissà perché avevan cambiato
idea. Sette giorni dopo, era un lunedì, gli dettero il passaporto: valido per
un solo viaggio di andata e ritorno. E tre ore più tardi partimmo, su un aereo
dell’Alitalia, diretti a Roma. Ma nemmeno la partenza fu una partenza civile.
Superata la dogana, la polizia di frontiera, la perquisizione, scendemmo nella
sala d’attesa e immediatamente una nuvola di poliziotti in borghese ci
circondò: provocatoria. Poi il volo venne chiamato e raggiungemmo la porta
numero due. Porgemmo le nostre carte d’imbarco. Ci spinsero indietro. «Perché?»
chiese Alekos. Silenzio. «Abbiamo un passaporto regolare e una carta di imbarco
regolare. E abbiamo completato tutte le formalità.» Silenzio. Tutti gli altri
passeggeri eran passati, saliti sull’autobus, scesi dall’autobus, entrati a bordo
dell’aereo. L’aereo non aspettava che noi. E noi non potevamo avvicinarci
nemmeno alla scaletta. Quel che è peggio, non ci veniva data alcuna
spiegazione, né veniva data agli impiegati dell’Alitalia che ci scortavano come
VIP. Dieci minuti, quindici, venti, venticinque, trenta... Non ho ancora capito
perché, trascorsi trenta minuti, ci permisero di andare a bordo. Forse avevano
telefonato al capo della Pubblica Sicurezza. Forse costui aveva informato
Papadopulos e Papadopulos aveva deciso che non conveniva, anche
internazionalmente, commetter l’errore di impedirgli la partenza all’ultimo
momento. Ma non ho capito un’altra cosa: non ho capito perché, chiusi gli
sportelli, l’aereo fu bloccato per altri quaranta minuti lì sulla pista. Non
c’erano problemi con la torre di controllo quel giorno. C’era soltanto un
grande imbarazzo a bordo. Un imbarazzo che sparì, tuttavia, quando fummo in
cielo. Il cielo più azzurro del mondo.
* * *
Quel che
accadde dopo è un altro libro perché Alekos divenne il compagno della mia vita
e un grande amore ci unì fino al giorno della sua morte che avvenne la notte
del Primo maggio 1976 quando egli fu ucciso con un simulato incidente
automobilistico, presto gabellato dal Potere come una banale disgrazia.
Tuttavia, per capire meglio l’intervista che segue e alla quale egli teneva
molto, sarà utile conoscere gli avvenimenti principali che costituirono
l’ossatura della sua esistenza dal momento in cui quell’aereo giunse a Roma al
momento in cui lo ammazzarono. Eccoli.
Dopo aver
lasciato la Grecia con me, Alekos scelse l’Italia come base politica e
geografica della sua lotta. Qui avevamo la casa che avremmo mantenuto per anni,
da qui partiva per i suoi viaggi in Francia, in Germania, in Svezia, ed anche
in patria dove rientrò varie volte, durante l’esilio, clandestinamente: mai
rintracciato dalla polizia di Joannidis. Nel novembre del 1973 la rivolta del
Politecnico e il massacro degli studenti avevano provocato un golpe nel golpe:
Joannidis aveva esautorato Papadopulos mettendolo agli arresti ed
autoeleggendosi padrone indiscusso della Grecia. Il primo nemico di Alekos era
diventato dunque Joannidis ed era Joannidis che ora sfidava, con spavalderia
suicida, appena scendeva all’aeroporto di Atene con un passaporto falso.
Joannidis lo sapeva e cercava Alekos, ogni volta, ma invano. Come una Primula
Rossa, Alekos riusciva a passare attraverso le maglie della polizia e prima di
lasciare il paese si divertiva addirittura a spedirgli una cartolina di
beffardi saluti. Ad Atene restava poco, del resto: dalle ventiquattro alle
quarantott’ore, il tempo di organizzare i compagni o di far scoppiare qualche
bomba dimostrativa. Aveva ricostituito l’organizzazione Resistenza Ellenica
dando particolare importanza al gruppo denominato Laos, Popolo. Con questo
gruppo effettuava le azioni più pericolose, attento però a non spargere sangue
di innocenti: nessuna bomba fece mai una vittima. In Europa invece agiva
attraverso gli emigrati, i partiti democratici, la stampa, la radio, la
televisione e i rapporti coi partiti socialisti cui era ovviamente legato.
Questo durò fino all’estate del 1974 quando la Giunta cadde travolta dai suoi
errori e dalle sue incapacità. Papadopulos era stato un dittatore furbo, non
privo di senso politico, Joannidis era un soldato ignorante che di politica
capiva ben poco. Illudendosi di annettere Cipro alla Grecia, fece rovesciare
Makarios che per puro miracolo sfuggì all’assassinio e ciò portò all’invasione turca
dell’isola. Poi, mentre la Grecia era sull’orlo della guerra con la Turchia,
indusse la Giunta ad abdicare e, con decisione insieme disperata e paradossale,
consegnò il governo agli stessi oppositori che nel 1967 Papadopulos aveva
travolto. Karamanlis rientrò ad Atene per fare un governo di emergenza, la
democrazia venne formalmente ristabilita.
In quegli
undici mesi con Alekos m’ero sempre chiesta come egli avrebbe reagito se la
dittatura fosse caduta, ed ammesso che non lo uccidessero prima. Secondo me,
infatti, la politica era solo un aspetto del suo straordinario talento e della
sua travolgente personalità. Esistevano in lui le stigmate del tribuno e del
leader, è vero, e non era facile che vi rinunciasse: però a mio avviso il suo
valore nasceva da una vocazione letteraria, la sua vena autentica era la vena
poetica. Non a caso amava ripetere: «La politica è un dovere, la poesia è un
bisogno». Pensavo insomma che le sue abilità di tribuno e di leader si
manifestassero bene nelle situazioni di emergenza, meno bene nella normalità
democratica. E un dubbio simile dovette colpire anche lui perché, con mia
sorpresa, dopo il ritorno di Karamanlis, non rientrò subito in Grecia. Si
decise a farlo soltanto il 13 agosto, anniversario del suo attentato a Papadopulos.
Il ritorno lo restituì al suo destino di combattente e lo esiliò dalla
letteratura. Ad Atene si preparavano le elezioni politiche. Il Partito
dell’Unione di Centro gli offrì subito un posto di candidato. Accettò e, per la
magica coincidenza di date che sempre accompagnò le tappe della sua vita,
compresa la data della sua morte, venne eletto proprio il 17 novembre:
anniversario della condanna alla fucilazione cui era sfuggito nel 1968. E va da
sé che la vittoria lo esaltò pochissimo: una settimana dopo era già in Italia
dove avrebbe continuato a tornare con frequenza ostinata, fedele, e che avrebbe
sempre considerato la sua seconda patria. Parlava l’italiano molto
correttamente. Lo scriveva quasi senza errori. Da italiano si vestiva e
mangiava. Con mobili italiani aveva arredato il suo appartamento ateniese
facendone la replica esatta della nostra casa a Firenze.
In
Parlamento Alekos si rivelò presto il deputato più battagliero. Non dava requie
a nessuno, meno che mai al ministro della Difesa Evanghelis Tositsas Averoff:
uomo che col passato regime aveva avuto contatti non chiari. La potenza di
Averoff superava quella di Karamanlis perché si appoggiava all’esercito e
perché dall’esercito veniva il pericolo di un nuovo colpo di Stato. Alekos lo
riteneva una minaccia per il paese e quando chiedeva la parola era sempre per
accusarlo in quel senso. Conosceva infatti l’esistenza di documenti che
provavano l’ex-collaborazionismo di Averoff e i motivi per cui egli non aveva
mai epurato i generali, i colonnelli, i capitani messi al comando durante la
tirannia. Tali documenti erano custoditi negli archivi dell’EATESA, la polizia
militare, misteriosamente scomparsi con la caduta della Giunta. Per tutto il
1975, senza che nessuno lo sapesse, l’attività principale di Alekos consistette
nella ricerca di tali archivi. E i processi contro Papadopulos, Makarezos,
Pattakos, Joannidis, gli altri esponenti della Giunta, poi contro i torturatori
come Theofiloyannakos e Hazizikis, lo aiutarono in certo senso a mantenere il segreto
perché distrassero l’attenzione di tutti. Di Alekos, in quei mesi, si parlò
soltanto per l’atteggiamento nobile che tenne verso gli imputati. Si batté
infatti perché Papadopulos e gli altri non fossero condannati a morte: «In
tempo di dittatura il tirannicidio è un dovere, in tempo di democrazia il
perdono è una necessità. La giustizia non si ottiene scavando tombe». Fu molto
generoso quando depose contro Theofiloyannakos che lo aveva seviziato con tanta
ferocia: la sua testimonianza durò appena quaranta minuti e si rifece solo agli
episodi più gravi, esposti con freddezza e distacco. Giunse a dichiarare che i
suoi nemici, ormai, non erano gli ex-aguzzini in catene ma gli equivoci
esponenti del nuovo potere.
Nei primi
mesi del 1976 Alekos entrò in possesso degli archivi dell’ESA e in particolare
dei documenti che cercava. Ne trovò anche contro un deputato che militava nel
suo partito, Demetrio Tzatzos. Ciò contribuì alla sua decisione di lasciare
l’Unione di Centro, restare in Parlamento come indipendente di sinistra. Ma
l’orgogliosa solitudine in cui da quel momento si chiuse centuplicò i pericoli
che incombevano da sempre su lui. Era diventato l’uomo più scomodo di Grecia.
Sapeva troppo sui padroni di una democrazia falsa e vacillante. E, al solito, era
troppo coraggioso per lasciarsi intimorire. Andava eliminato. Lo eliminarono la
vigilia della consegna degli archivi in Parlamento. Istigata da Averoff, la
magistratura ne aveva proibito la pubblicazione. Ad Alekos non restava perciò
che consegnarli a Karamanlis, in Parlamento, con un gesto che facesse scalpore.
Questo doveva avvenire lunedì mattina 3 maggio. La notte tra venerdì e sabato
Primo maggio, mentre andava a dormire a casa della madre a Glifada, due
automobili presero a inseguirlo. In via Vouliagmeni una gli si affiancò a gran
velocità e, con un’abile manovra di testa-coda, lo scaraventò fuori strada.
Morì quasi sul colpo. Ai suoi funerali parteciparono un milione e mezzo di
persone.
Ma questo,
ripeto, è un altro libro. Qui serviva esclusivamente chiarire le tappe più
importanti della sua vita dopo l’intervista. Un’intervista che va ben oltre
l’autoritratto dell’uomo che amai, che mi amò, che amo. A quattro anni di
distanza, infatti, non posso fare a meno di considerarla una specie di
testamento spirituale, una spiegazione di ciò che Alekos cercò sempre invano.
Perché ciò che egli cercava, che ogni creatura degna d’essere nata dovrebbe
cercare, non esiste. È un sogno che si chiama libertà, che si chiama giustizia.
E piangendo bestemmiando soffrendo noi possiamo solo rincorrerlo dicendo a noi
stessi che quando una cosa non esiste la si inventa. Non abbiamo fatto lo
stesso con Dio? Non è forse il destino degli uomini quello di inventare ciò che
non esiste e battersi per un sogno?
ORIANA
FALLACI. Non hai un aria felice, Alekos. Ma come? Sei finalmente fuori da
quell’inferno e non sei felice?
ALESSANDRO
PANAGULIS. No, non lo sono. So che non mi crederai, so che questo ti sembrerà
impossibile, assurdo, ma io mi sento più irritato che felice, più triste che
felice. Mi sento come domenica scorsa quando udii quegli evviva levarsi dalle
celle degli altri detenuti, e ignoravo il perché degli evviva, e pensai: “Deve
trattarsi di qualche amnistia. Papadopulos sta facendo il suo proclama, così
prepara lo spettacolo con una amnistia capace di impressionare gli ingenui. Può
permettersi il lusso di aver meno paura, ormai. Anzi, di fingere d’aver meno
paura. Tanto, che gli costa mettere fuori alcuni di noi”. Pensai: “Alcuni di
noi” perché non credevo che liberasse anche me. E quando lo seppi, lunedì
mattina, non provai nessuna gioia. Nessuna. Mi dissi: se ha deciso che gli
conviene liberare anche me, significa che il suo disegno è più ambizioso;
significa che conta davvero di legalizzare la Giunta nell’ambito della Costituzione
e cercare il riconoscimento degli antichi avversari. Entrando nella cella, il
comandante del carcere m’aveva annunciato la grazia: «Panagulis, hai ottenuto
la grazia». Gli risposi: «Che grazia? Io non ho chiesto la grazia a nessuno».
Poi aggiunsi: «Vi accorgerete presto che mettermi dentro è facile ma tirarmi
fuori è difficile. Prima che giunga a Erithrea, mi avrete messo dentro di
nuovo». Erithrea è un sobborgo di Atene.
Gli hai
detto questo?!
Sicuro. Che
altro potevo dirgli? Dovevo forse dirgli grazie, molto gentile, porta i miei
omaggi al signor Papadopulos? Del resto, martedì è stato peggio. Sai, esiste
una procedura particolare per leggere al condannato il decreto di amnistia: una
specie di cerimonia col plotone che presenta le armi, gli altri sugli attenti
eccetera. Così, verso mezzogiorno, arriva il procuratore Nicolodimus per la
cerimonia e mi fanno uscire di cella per condurmi dinanzi ai quartieri del
comandante dove sono tutti in piedi eccetera. Io vedo una sedia e,
immediatamente, mi accomodo. Smarrimento, sorpresa, e: «Panagulis! In piedi!»
ordina Nicolodimus. «E perché?» gli rispondo «perché devi leggere un foglio che
chiami decreto presidenziale ma per me è soltanto il foglio di un
colonnello?... No, non mi alzo. No!» E rimango seduto. Gli altri in piedi,
sugli attenti eccetera, e io seduto. Non avrei lasciato quella sedia nemmeno se
mi avessero fatto a pezzi. Hanno dovuto celebrare la cerimonia mentre me ne
stavo così, con le gambe accavallate. Non ho mai smesso di provocarli. Quando
il tenente colonnello è venuto a prendermi, verso le due del pomeriggio, ho
provocato anche lui. «Panagulis, sei libero. Prendi le tue cose.» «Io non
prendo nulla. Prendile te. Non l’ho chiesto io di uscire.»
E lui?
Oh, lui ha
ripetuto la frase degli altri: «Appena fuori non lo dirai più. Scoprirai la
dolce vita e cambierai idea». Poi hanno preso le mie borse e le hanno portate
fino al cancello, come facchini. È stato divertente perché dentro una delle
borse che mi portavano come facchini avevo nascosto le ultime poesie che ho
scritto e le seghette che usavo per segare le sbarre. Sono seghette minuscole,
guarda. Però funzionano. Per diciassette volte mi hanno trovato queste seghette
eppure son sempre riuscito a procurarmene ancora e, mentre uscivo da Boiati, ne
avevo una decina. Le tenevo qui, vedi? E
la prossima volta... Io aspetto sempre che tornino a prendermi per riportarmi
laggiù. E tu vuoi che sia felice!
Eppure,
quando sei stato fuori, quando hai visto il sole e tua madre, dev’essere stato
bello.
Non è stato
nemmeno bello. È stato come accecare. Erano tanti anni che non uscivo da quella
tomba di cemento, erano tanti anni che non vedevo lo spazio e il sole. M’ero
dimenticato com’è fatto il sole, e fuori c’era un sole fortissimo. Quando me lo
son trovato addosso, ho dovuto chiudere gli occhi. Poi li ho riaperti un poco,
ma un poco soltanto, e con gli occhi semichiusi sono andato avanti. E andando
avanti ho scoperto lo spazio. Non mi ricordavo più com’è fatto lo spazio. La
mia cella era lunga un metro e mezzo per tre, camminando potevo fare solo due
passi e mezzo. Al massimo tre. Riscoprire lo spazio mi ha dato le vertigini. Me
lo sono sentito ruotare intorno come una giostra, e ho barcollato, e sono stato
per cadere. Anche ora, del resto, se cammino per più di cento metri, divento
stanco e disorientato. No, non è stato bello. E se non ci credi non me ne
importa. O me ne importa e pazienza. Facevo uno sforzo terribile per andare
avanti in tutto quel sole tutto, quello spazio. Poi d’un tratto, in tutto quel
sole, tutto quello spazio, ho visto una macchia. E la macchia era un gruppo di
gente. E da quel gruppo di gente s’è staccata una figura nera. E m’è venuta
incontro, e un po’ per volta è diventata mia madre. E dietro mia madre s’è
staccata un’altra figura. E anche questa m’è venuta incontro. E un po’ per
volta è diventata la signora Mandilaras, la vedova di Nikoforos Mandilaras
assassinato dai colonnelli. E io ho abbracciato mia madre, ho abbracciato la
signora Mandilaras, e dopo...
Dopo hai
pianto.
No! Non ho
pianto! Nemmeno mia madre ha pianto! Noi siamo gente che non piange. Se per
caso si piange, non si piange mai dinanzi agli altri. In questi anni io ho
pianto solo due volte: quando hanno assassinato Georghatzis e quando mi hanno
detto che mio padre era morto. Ma nessuno mi ha visto piangere: ero dentro la
mia cella. E poi... poi nulla. Sono andato a casa con mia madre e la signora
Mandilaras e l’avvocato. E a casa ho trovato un mucchio di amici. Sono stato
con gli amici fino alle sei del mattino, quindi sono andato a letto nel mio
letto e non chiedermi se mi sono commosso a dormire nel mio letto. Perché non
mi sono commosso. Oh, non sono insensibile, sai! Non lo sono! Ma sono indurito.
Molto indurito, e cos’altro ti aspetti da un uomo che per cinque anni è stato
sepolto vivo dentro una tomba di cemento, senza alcun contatto col mondo
fuorché coloro che lo picchiavano, lo insultavano, lo seviziavano e addirittura
tentavano di assassinarlo? Non mi hanno giustiziato dopo aver pronunciato
quella condanna a morte, è vero. Però mi hanno seppellito lo stesso: vivo
anziché morto. E per questo li disprezzo. Era loro diritto giustiziarmi: perché
l’attentato lo avevo fatto eccome. Ma non era loro diritto seppellirmi vivo
anziché morto. Ecco perché non avverto che rabbia verso quei pagliacci che ora
mi consentono di dormire nel mio letto.
Alekos, non
dire queste cose. Vuoi tornare in prigione?
Se dovessimo
guardare le cose con logica, dovrei esserci tornato davvero prima di arrivare a
Erithrea. Io sono pronto a tornare in prigione in qualsiasi momento. Fin da
questo momento. Fin da ieri, fin da ieri l’altro, fin dall’attimo in cui m’ha
accecato quel sole. Ti dirò di più: se serve che io torni in prigione, sarò
lieto di tornare in prigione. Perché in seguito a cosa dovrebbero riportarmi in
prigione? In seguito a ciò che dico con gli altri e con te? Ma dire ciò che
penso non è forse un mio diritto, in regime di democrazia, e Papadopulos non
sostiene forse che in Grecia c’è la democrazia? Papadopulos ha tutto l’interesse
di tenermi fuori e dimostrare al mondo che non gli importa nulla di ciò che
dico. E, se vuole farmi del male con intelligenza, deve farmi cadere in qualche
tranello. Ma questo l’ha già tentato. Il giorno dopo la mia scarcerazione è
venuto qui un ragazzotto che diceva d’essere studente sebbene, anche dal taglio
dei capelli, si capisse subito che apparteneva alla polizia militare. Mi ha
raccontato d’avere ucciso un americano preso in ostaggio per liberar Panagulis,
qualche tempo fa, e poi mi ha chiesto alcuni mitra. L’ho cacciato gridando e ho
subito telefonato alla polizia militare. Ho cercato il capo, uno di quelli che
mi torturavano. Non c’era e così ho detto al telefonista: «Spiegagli che, se mi
manda un altro dei suoi agenti provocatori, lo massacro di botte». Perbacco!
Non son riusciti a piegarmi in carcere: figurati se riescono a piegarmi ora.
Alekos, non
hai paura d’essere ammazzato?
Mah! Visto
che vogliono apparire liberali, democratici, neanche ammazzarmi gli
converrebbe: in questo momento. Però potrebbero pensarci. Nel marzo del 1970,
subito dopo l’assassinio di Policarpos Georghatzis, l’eroe della guerra di
liberazione a Cipro e ministro dell’arcivescovo Makarios, ci provarono. Erano
circa le sette di sera e io ero al quinto giorno di un nuovo sciopero della
fame. D’un tratto udii un fischio e il pagliericcio prese fuoco. Mi gettai per
terra, gridai assassini, bastardi, bestie, apritemi la porta. Ma ci volle più
di un’ora perché mi portassero fuori, anzi perché mi aprissero la porta. Un’ora
durante la quale il pagliericcio continuò a bruciare, a bruciare... Non ci
vedevo più, non respiravo più. Quando giunse il medico della prigione, un
giovane sottotenente, ero in coma. Come avrei saputo dopo, egli chiese di
portarmi subito all’ospedale ma non glielo permisero e per due giorni rimasi
tra la vita e la morte nella mia cella. Il medico faceva sforzi disperati per
salvarmi e riuscire a trasferirmi in un ospedale. Gli uomini della Giunta si
mostravano del tutto indifferenti. Molto spesso svenivo e non potevo parlare
perché il torace mi faceva male e perfin respirare mi dava dolori. Dopo
quarantotto ore quel giovane sottotenente ottenne che ufficiali medici più
anziani mi visitassero e, quando essi videro in quali condizioni ero, furon
colti dall’ira. Il capo degli ufficiali medici disse che era un crimine tenermi
nella cella, e telefonò ai suoi superiori per protestare. Se è vero ciò che
seppi più tardi, chiamò anche il comandante in capo delle forze armate che ora
è vicepresidente della pseudo-democrazia, Odisseo Angelis. Gli disse che il
loro rifiuto di farmi trasferire in un ospedale era un atto delittuoso e che li
avrebbe denunciati. E fu grazie a lui che finalmente mi ricoverarono.
All’ospedale mi trovaron nel sangue il 92 per cento di anidride carbonica e
dissero che non sarei campato più di due ore: anche se avessi superato le due
ore, comunque, non sarei sopravvissuto. E... Ma tu lo sai perché liberarono
Teodorakis?
Teodorakis?
No.
Perché io
stavo per morire. C’era quel francese, ad Atene. Quel Servan Schreiber. E
sembra che fosse venuto per portare via me. Non mi avrebbero consegnato a
Servan Schreiber nemmeno se fossi stato bene, naturalmente. E, in più c’era il
fatto che mi trovavo in stato di coma per il loro tentativo di assassinarmi.
Così, e in previsione dello scandalo che sarebbe esploso con la mia morte, gli
regalarono Teodorakis. Divertente, no? Non voglio dire, con questo, che non sia
stato felice per la liberazione di Teodorakis. Egli aveva talmente sofferto in
prigione. Però... la storia resta divertente.
Interessante.
Ma come fai ad avere le prove che tentarono di assassinarti?
Qualche
giorno prima del fatto presero il pagliericcio e lo portarono via per
“spolverarlo”. Succedeva molto raramente, ogni tre o quattro mesi. E, quando lo
riportarono dentro la cella, la sentinella venne da me. La sentinella era un
amico. Mi chiese: «Alekos, avevi nascosto nulla dentro il pagliericcio?». «No,
nulla. Perché?» risposi. «Perché ho visto che il caporale Karakaxas ci
manovrava intorno come se cercasse qualcosa.» Io non detti importanza alla
faccenda, lì per lì, tuttavia la prima cosa cui pensai quando il pagliericcio
prese a bruciare è che ci avessero messo del fosforo, del plastico, non so. E
il primo nome che mi venne in mente fu quello di Karakaxas. Naturalmente mi
accusarono d’essermi autoincendiato. Ma, quando gli ricordai che da sei giorni
mi avevano tolto perfino le sigarette e i fiammiferi, capirono d’esser nei
guai. Venne da me il maggiore Kutras, della polizia militare, e mi disse: «Se
non racconti a nessuno quello che è successo, hai la mia parola d’onore che ti
lasceremo libero di andare all’estero». Poiché rifiutai perfino di discutere
una simile offerta, dopo dieci giorni mi ributtarono dentro la cella e, da quel
momento, perfino le visite di mia madre vennero proibite. Quanto al mio
avvocato, in cinque anni non l’ho mai visto. Non ho mai ricevuto le sue
lettere, lui non ha mai ricevuto le mie. E anche ciò caratterizza il loro
comportamento illegale e criminale nei miei riguardi. Avevano evidentemente
paura che io rivelassi il tentato assassinio e così tutta la mia posta finiva
sul tavolo del direttore del carcere. Perfino le lettere che indirizzavo a
Papadopulos. Scrivevo a Papadopulos come al capo morale della Giunta, per
esprimergli tutto il mio disgusto e il mio disprezzo. Dovrebbero avere il
coraggio di pubblicarle, quelle lettere, o almeno di renderle pubbliche. Gliene
ho mandate tante, a tutti gli indirizzi. E poi scrivevo al presidente
dell’Arios Pagos, la Corte costituzionale. Gli inviavo telegrammi per
denunciare ciò che mi facevano e per dirgli che stavo male. Ma neanche lui
ricevette mai i miei telegrammi e...
E ora come
stai, Alekos?
Meno bene di
quanto sembri. La mia salute non va. Mi sento sempre debole, esausto. A volte
ho collassi. Ne ho avuto uno ieri, un altro appena uscito di prigione. Non
riesco a camminare: tre passi e mi metto a sedere. E a parte questo, un mucchio
di cose non vanno: al fegato, ai polmoni, ai reni. Mi hanno portato in clinica
e i primi esami non sono stati rasserenanti: lunedì devo ricoverarmi per farne
altri. Tutti quegli scioperi della fame, ad esempio, mi hanno debilitato. Mi
dirai: ma perché infliggerti anche quegli scioperi della fame? Perché negli
interrogatori lo sciopero della fame è un mezzo per tenergli testa. Gli
dimostri cioè che non possono prenderti tutto perché hai il coraggio di
rifiutare tutto. Mi spiego meglio. Se rifiuti di mangiare e li aggredisci, loro
si innervosiscono e il fatto d’esser nervosi non gli permette di applicare una
forma sistematica di interrogatorio. Durante le torture, ad esempio, se il
torturato tiene un atteggiamento provocatorio e aggressivo, l’interrogatorio
sistematico si trasforma in una lotta personale del torturato stesso. Capito?
Voglio dire che, con lo sciopero della fame, il corpo si indebolisce e ciò non
permette la continuazione dell’interrogatorio perché è inutile interrogare o
torturare qualcuno che perde conoscenza. Queste condizioni si realizzano dopo
tre o quattro giorni senza cibo né acqua, soprattutte se perdi sangue per le
ferite inflitte dalle torture. Così sono costretti a trasferirti all’ospedale
e... Oh, anche i miei ricordi dell’ospedale sono dolorosi. Tentavano di
nutrirmi con un tubo di plastica che mi infilavan nel naso. Soffrivo molto,
anche se avevo la sensazione di guadagnar tempo. E poi...
E poi?
Poi,
dall’ospedale, mi riportavano nella stanza della tortura e riprendevano a
torturarmi. Allora io facevo di nuovo lo sciopero della fame, e di nuovo li
provocavo, di nuovo mi mostravo sprezzante, aggressivo. Così il loro sistema
falliva, di nuovo. E di nuovo eran costretti a portarmi all’ospedale dove, di
nuovo, tentavano di nutrirmi con la sonda nel naso. Oh, anche il comportamento
di alcuni medici era disgustoso. All’ospedale i miei torturatori continuavano
l’interrogatorio ma in modo meno consistente perché lì non potevano usare i
loro mezzi. Guadagnavo tempo, ripeto, e ciò era importante per me. Insomma, mi
sarebbe stato impossibile rinunciare allo sciopero della fame. Era un’arma
troppo indispensabile.
Durante gli
interrogatori, lo capisco... Ma dopo, Alekos, in prigione?
Anche in
prigione non avevo un modo più efficace per esprimere il mio disgusto, il mio
disprezzo, e per dimostrargli che non potevano piegarmi. Neanche se ero ormai
un detenuto. Ribellandomi attraverso lo sciopero della fame avevo la sensazione
di non essere solo e pensavo di offrire qualcosa alla causa della Grecia.
Pensavo che se tenevo un atteggiamento fermo, coraggioso, i soldati e le
guardie e gli stessi ufficiali avrebbero compreso che ero lì a rappresentare un
popolo deciso a vincere. Del resto molti degli scioperi della fame che facevo
in carcere eran provocati dal modo in cui si comportavano con me. Mi negavano
anche un giornale, un libro, una matita, una sigaretta. E per avere un
giornale, un libro, una matita, per fumare una sigaretta, rifiutavo il cibo.
Per giorni e giorni. Ho fatto uno sciopero che è durato quarantasette giorni,
uno che è durato quarantaquattro, uno quaranta, uno trentasette, due trentadue,
uno trenta, cinque tra i venticinque e i trenta... Ne ho fatti tanti. E,
malgrado ciò, loro non hanno smesso mai di picchiarmi. Mai. Ho preso tante
botte in quella cella. Le costole che mi hanno rotto, quando mi battevano con
le spranghe di ferro, sono appena rimarginate.
Quando
t’hanno picchiato per l’ultima volta?
Se parli di
botte serie, il 25 ottobre 1972: al trentacinquesimo giorno di uno sciopero
della fame. Venne Nicholas Zakarakis, il direttore del carcere di Boiati, e io
ero disteso sul pagliericcio. Non avevo più forze, non potevo quasi più
respirare. Lui cominciò lo stesso a insultarmi e d’un tratto disse che ero
stato pagato per il mio attentato a Papadopulos, e che avevo messo i soldi in
Svizzera. Allora non ce la feci a star zitto. Raccolsi quel po’ di voce che mi
restava in gola e gli gridai: «Malakas. Sudicio malakas!». Malakas è una brutta
parola, in greco. Zakarakis reagì con una tal pioggia di botte che mi dà ancora
fastidio pensarci. Di regola, mi difendevo. Quel giorno invece non potevo
muovere un dito e... Anche il 18 marzo m’avevan picchiato. M’avevano legato
alla branda e m’avevan picchiato per un’ora e mezzo. Quando il dottor Zografos
alzò il lenzuolo e vide il mio corpo, chiuse gli occhi per l’orrore. Era un
corpo nero come l’inchiostro, un livido dalla testa ai piedi. M’avevan
picchiato soprattutto sui polmoni e sui reni, così per due settimane sputai
sangue e orinai sangue. Ma come vuoi che faccia a sentirmi bene, ora?! Del
resto, la faccenda dell’orinar sangue deriva anche da un’altra cosa che mi
fecero durante l’interrogatorio.
Non te la
chiederò, Alekos.
Perché?
Tanto è una cosa che raccontai anche al processo e di cui informai la Croce
Rossa Internazionale. Me la faceva Babalis, uno dei miei torturatori. Mentre
giacevo nudo legato a quel letto di ferro, mi infilava nell’uretra un filo di
ferro. Una specie di ago. Poi, mentre gli altri gridavano oscenità, con
l’accendino arroventava il pezzo di ferro che restava fuori. Una cosa tremenda.
Dice: «Ma l’elettrochoc non te l’hanno fatto». No, a me non lo hanno fatto.
Però mi hanno fatto quella cosa e, quando si parla di torture, come si fa a
stabilire qual è la peggiore? Restar dieci mesi ammanettato, dieci mesi dico,
giorno e notte, non è forse una tortura? Dieci mesi, giorno e notte. Soltanto a
partire dal nono mese mi liberarono i polsi, per qualche ora. Due o tre ore al
mattino, dopo le insistenze del medico della prigione. Le mie mani eran gonfie,
i polsi mi sanguinavano e in più punti mostravan ferite purulente... Riuscii a
informare mia madre che presentò al Procuratore Generale un’accusa ufficiale,
scritta. E quell’accusa è una prova perché, se mia madre avesse scritto il
falso, essi l’avrebbero incriminata: sì o no? Non incriminarono forse la
signora Manga is quando rivelò che suo marito, il professor Giorgio Manga is,
era stato torturato? La misero anche in prigione, questa grande signora,
sebbene avesse detto la verità. Poteron permetterselo perché nel suo caso era stato
difficile provare le accuse. Ma nel mio caso, no. Non poterono imprigionare mia
madre: le prove esistevano. Ed evidenti. Erano le ferite e le cicatrici che mi
portavo su tutto il corpo. Se dovessi fare la lista delle torture... Guarda
queste tre cicatrici dalla parte del cuore. Me le fecero il giorno in cui mi
ruppero il piede sinistro con la falanga. Naturalmente mi facevano sempre la
falanga che consiste nel bastonarti le piante dei piedi finché il dolore ti
arriva al cervello e svieni. Io la sopportavo anche abbastanza bene. Ma quel
giorno Babalis ce la mise tutta e mi ruppe il piede sinistro. Cinque minuti
dopo giunse Costantino Papadopulos. Sai, il fratello di Papadopulos. Mi
appoggiò la rivoltella alla tempia e gridò: «Ora ti ammazzo, ti ammazzo!» e mi
picchiava. Mentre mi picchiava, Theofiloyannakos mi colpiva sul cuore, con un
tagliacarte di ferro dalla punta scheggiata. «Te lo infilo nel cuore, te lo
infilo nel cuore!» Di qui queste tre cicatrici.
E queste
cicatrici sui polsi?
Oh, queste
me le fecero quando fingevano di svenarmi. Nulla di grave. Mi tagliuzzavano
solo superficialmente. Del resto, sai: di cicatrici ne ho per tutto il corpo.
Ogni tanto me ne scopro una e mi dico: e questa quando me l’hanno fatta? Alla
terza settimana di torture, non ci facevo più caso. Sentivo il sangue che
colava da una parte, la carne che si apriva dall’altra, e pensavo soltanto:
“Rieccoci”. Incominciavano le usuali torture frustandomi con una corda di
metallo. Era Theofiloyannakos a frustarmi. Oppure mi appendevano al soffitto
pei polsi e mi lasciavano lì per ore. È dura perché la parte superiore del
corpo, dopo un po’ resta come paralizzata. Voglio dire: le braccia e le spalle
non le senti più. Non puoi respirare, non puoi gridare, non puoi ribellarti in
nessun modo e... Loro sapevano tutto questo, naturalmente, e quando arrivavo a
quel punto mi bastonavano sulle reni. Lo sai a cosa non mi sono mai abituato?
Alla soffocazione. Me la faceva Theofiloyannakos, anche quella, tappandomi con
entrambe le mani il naso e la bocca, oh, quella era peggio di tutto. Di tutto!
Mi tappava il naso e la bocca per un minuto, guardando l’orologio, e mi
lasciava riprendere fiato solo quando diventavo paonazzo. Smise di farlo con le
mani quando riuscii a mordergliele. Un morso che gli staccai quasi un dito. Ma
allora passò alla coperta e... Un’altra cosa che sopportavo male erano gli
insulti. Non mi seviziavano mai in silenzio. Mai. Gridavano, gridavano... Con
voci che non erano più voci ma boati... E poi le sigarette spente fra i testicoli.
Senti, ma perché vuoi sapere queste cose da me e basta? Non è neanche giusto.
Non le hanno fatte mica a me e basta. Vai all’ospedale militare 401, se ti
riesce, e chiedi di vedere il maggiore Mustaklis. A lui, durante
l’interrogatorio, fecero l’aloni. Sai cos’è l’aloni? È quando i torturatori si
mettono in cerchio, poi ti buttano al centro del cerchio, e ti colpiscono tutti
insieme. Lui lo picchiavano sulla colonna vertebrale e sulla cervice. È rimasto
completamente paralizzato. Giace in un letto come un vegetale e i medici lo
definiscono «clinicamente morto».
Vorrei
chiederti una cosa, Alekos. Prima che ciò succedesse, sopportavi bene il dolore
fisico?
Oh, no! No.
Il più innocuo mal di denti mi infastidiva oltre misura e non sopportavo la
vista del sangue. Soffrivo solo a veder soffrire la gente, ammiravo con
incredulità le persone capaci di tollerare il dolore fisico. L’uomo è proprio
una creatura straordinaria, un oceano di sorprese. È incredibile come un uomo
possa cambiare, ed è meraviglioso come un uomo possa rivelarsi capace di
sopportare l’insopportabile. Quel retorico proverbio «l’acciaio si tempra col
fuoco» è proprio vero, sai. Io, più mi straziavano, più diventavo duro. Più mi
seviziavano, più resistevo. Alcuni dicono che nelle torture si invoca la morte
come una liberazione. Non è vero. Almeno per me. Mentirei se dicessi che non ho
avuto mai paura, ma mentirei anche se dicessi che ho desiderato di morire. Era
l’ultima idea che mi attraversava la testa, morire. Pensavo solo a non cedere,
a non parlare, e a ribellarmi. Sapessi quante volte li ho picchiati, anch’io!
Se non ero legato al tavolo di ferro, li prendevo a calci, a morsi, a pedate.
Era utilissimo perché così si arrabbiavano di più e mi picchiavano ancora più
forte e svenivo. Desideravo sempre svenire, perché svenire è come riposarsi.
Poi loro ricominciavano, ma...
Scusa,
Alekos. Ho una curiosità. Ma tu lo sapevi che il mondo intero si stava
occupando di te e protestava per te?
No. L’ho
capito solo il giorno in cui loro sono entrati nella mia cella sventolando i
giornali e gridando: «I carri armati russi sono entrati in Cecoslovacchia! Ora
nessuno avrà più tempo e voglia di occuparsi di te!». E poi l’ho capito quando
mi hanno mostrato ai giornalisti, dopo il primo tentativo di fuga. Erano tanti,
di tanti paesi e mi son detto: “Ma allora sanno!”. E ho sentito come una
carezza sul cuore. E m’è parso d’essere meno solo. Perché la cosa più atroce
sai, non è soffrire. È soffrire da soli.
Riprendi il
tuo racconto, Alekos.
Dicevo che,
quando loro mi insultavano, «criminale, bastardo, traditore, frocio», altre
volgarità irripetibili, io insultavo loro. Gli urlavo cose spaventose. Ad
esempio: «Ti scoperò tua figlia!». Ma a freddo, senza perder la testa, mi
spiego? Io, che son così passionale, con la rabbia divento freddo. Un giorno mi
mandarono un ufficiale addetto all’interrogatorio psicologico. Sai, uno di
quelli che dicono: «Caro, è-meglio-che-tu-parli». Visto che era così gentile,
gli chiesi un bicchiere d’acqua. Me lo fece portare, premuroso. Ma appena ebbi
il bicchiere in mano, anziché bere l’acqua lo ruppi. Poi, col bicchiere rotto,
mi lanciai contro quei mascalzoni. Ne ferii due o tre prima che mi saltassero
addosso e mi gettassero per terra, sui frammenti di vetro, dove un frammento mi
tagliò quasi a metà il mignolo destro. Mi tagliò anche il tendine, vedi. Non lo
muovo più questo dito. È un dito morto. Poi sai cosa fece quella bestia di
Babalis? Chiamò il dottore e, senza liberarmi i polsi legati dietro la schiena,
mi fece ricucire il mignolo. Così, senza anestesia. Un male! Quel giorno
gridai. Gridai come un pazzo.
Senti,
Alekos: ma non ti è mai venuta la tentazione di parlare?
Mai! Mai!
Mai! Io non dissi mai nulla. Mai. Non implicai mai nessuno. Mai. Poiché m’ero
assunto tutte le responsabilità dell’attentato, loro volevano sapere chi
avrebbe assunto la responsabilità del governo se l’attentato fosse riuscito. Ma
dalla mia bocca non uscì mai mezza parola. Un giorno che ero disteso sul letto
di ferro e non ne potevo davvero più, mi portarono un greco che si chiama
Brindisi. Aveva parlato e piangeva. Piangendo disse: «Basta, Alekos. Non serve
più. Parla, Alekos». Ma io risposi: «Chi è questo Brindisi? Io, di Brindisi,
non conosco che un porto italiano». Lo stesso giorno mi portarono Avramis.
Avramis era un membro di Resistenza Greca, ed era un ex-ufficiale di polizia,
un uomo coraggioso, onesto. Negai di conoscerlo e negai che appartenesse a
Resistenza Greca. Theofiloyannakos gridava: «Come vedi, lui ti conosce. E l’ha
già ammesso. Ammetti la stessa cosa e finiremo questa faccenda per sempre». Io
risposi: «Ascolta, Theofiloyannakos. Se ti avessi soltanto per un’ora nelle mie
mani, ti farei confessare qualsiasi cosa. Anche che hai violentato tua madre.
Non conosco quest’uomo. Lo avete torturato e ora dice quel che volete». E
Theofiloyannakos: «Tanto, che tu parli o no, noi diremo che hai parlato».
Ascolta: anche sotto le torture più atroci non ho mai tradito nessuno. Nessuno.
E questa è una cosa che perfino quelle bestie rispettano. La direzione delle
mie torture era affidata al capo della polizia: l’allora tenente colonnello e
oggi brigadier generale Joannidis. Una notte, vedendomi sputare sangue, scosse
la testa e disse: «Niente da fare. Inutile insistere. Capita una volta su
centomila che uno non parli. Ma questo è il caso. È troppo duro, questo
Panagulis. Non parlerà». Joannidis ha sempre detto: «L’unico gruppo che non
siamo certi di aver decimato è il gruppo di Panagulis. Quella tigre spaccava le
manette». Bè, forse non è carino che te lo racconti. Magari ti metti in testa
che sono un vanesio e scrivi che c’è autocompiacimento in me o robe simili. Ma
io te lo devo dire lo stesso perché è una bella soddisfazione. Non è giusto?
Sì. Lo è. E
ora vorrei sapere un’altra cosa, Alekos. Questa. Dopotanto soffrire, sei ancora
capace di amare gli uomini?
Amarli
ancora?!? Amarli di più, vuoi dire! Accidenti, ma come fai a porre una domanda
simile? Non crederai mica che io identifichi l’umanità con le bestie della
polizia militare greca? Ma si tratta di un pugno di uomini! Non ti dice nulla
che in tutti questi anni siano rimasti sempre gli stessi?!? Sempre gli stessi.
Senti: i cattivi sono una minoranza. E per ogni cattivo vi sono mille,
diecimila buoni: cioè le sue vittime. Quelli per cui bisogna battersi. Non
puoi, non devi veder così nero! Io ho incontrato tanta gente buona in questi
cinque anni! Perfino tra i poliziotti. Sì, sì! Ma pensa solo ai soldatini che
rischiavano la pelle per portar fuori della prigione le mie lettere, le mie
poesie! Pensa a tutti quelli che mi hanno aiutato, nei tentativi di fuga! Pensa
ai medici che mi hanno fatto portare in ospedale e quand’ero in ospedale
ordinavano alle guardie di non tenermi legato al letto per le caviglie. «Non
posso» rispondevan le guardie. E i medici: «Questa non è una prigioneee! Questo
è un ospedaleee!». E quel tale Panayotidis che partecipava alle torture e mi
sputava sempre addosso? Un giorno si avvicina a me tutto imbarazzato e mi dice:
«Alekos mi dispiace. Ho fatto quello che mi hanno ordinato di fare. Lo avrei
fatto anche se mi avessero detto di farlo su mio padre. Non ho il coraggio di
oppormi. Perdonami, Alekos». Oh, l’Uomo...
Vuoi dire
che l’Uomo è fondamentalmente buono, che l’Uomo nasce buono?
No. Voglio
dire che l’Uomo nasce per essere buono, e che è più spesso buono che cattivo. E
senti: a me, per accettare gli uomini, basta ciò che mi accadde quando ero
all’ospedale dopo il tentativo di ammazzarmi col pagliericcio in fiamme. C’era
una vecchia inserviente in quella corsia. Sai una di quelle vecchie che lavano
per terra e puliscono i gabinetti. Un giorno viene da me e mi fa una carezza
sulla fronte e mi dice: «Povero Alekos! Sei sempre solo! Non parli mai con
nessuno! Stasera vengo qui, mi siedo accanto a te, e tu mi racconti le cose:
eh?». Poi andò verso la porta e qui fu ghermita dalle guardie che la portarono
via. Non venne quella sera. Io la aspettai ma lei non venne. Non la vidi più.
Non ho mai saputo cosa le hanno fatto e...
Piangi,
Alekos? Tu?!?
Non piango.
Io non piango. Io mi commuovo. La gentilezza mi commuove. La bontà mi commuove.
E allora sono commosso. Capito?
Capito. Sei
religioso, Alekos?
Io? Io no.
Voglio dire: non credo in Dio. Se mi parli di Dio, ti rispondo con la risposta
di Einstein: credo nel Dio di Spinoza. Chiamalo panteismo, chiamalo come ti
pare. E se mi parli di Gesù Cristo rispondo che mi sta bene perché non lo
considero figlio di Dio ma figlio degli uomini. Il solo fatto che la sua vita
sia stata ispirata dalla volontà di alleviare il dolore umano, il solo fatto
che abbia sofferto e sia morto per gli uomini e non per la gloria di Dio, mi
basta a considerarlo grande. Il più grande di tutti gli dei inventati
dall’Uomo. Vedi, l’uomo non può prescindere dall’idea dell’amore perché non può
vivere senza amore. Io ho ricevuto tanto odio nella vita ma ho ricevuto anche
tanto amore. Da bambino, ad esempio. Sono stato un bambino felice perché sono
cresciuto in una famiglia in cui ci si è tanto amati. Ma non era una questione
di famiglia e basta. Era una questione... come dire? di scoperte. Per esempio,
durante l’occupazione italiana ci eravamo rifugiati nell’isola di Leucade dove
c’erano tanti soldati italiani. Mi chiamavano sempre: «Piccolo, piccolo,
piccolo!», e poi mi davano regali. Una cioccolata, una galletta. Mio padre,
ufficiale dell’esercito, non voleva che li accettassi e pretendeva che li
buttassi via, quei regali. Mia madre invece no: «Raccatta e ringrazia». Mia
madre sapeva che non lo facevano per insultarmi ma per esser gentili. Sapeva
che non erano soldati cattivi ma uomini buoni. Io sono stato meno felice dopo,
a crescere. È difficile sentirsi completamente felice quando ci si accorge che
agli altri non importano sempre le cose che importano a te. E quando vedevo nei
miei coetanei l’indifferenza pei problemi della vita, io... ecco non ero più
capace di esser felice. Come oggi.
È curioso
Alekos: parli come un uomo che non può concepire neanche l’idea di fare un
attentato, di uccidere.
Io, prima
del 21 aprile, cioè prima dell’avvento dei colonnelli, non concepivo neanche
l’idea di uccidere. Non avrei potuto fare del male al mio peggior nemico. Del
resto ancora oggi, l’idea di uccidere mi ripugna. Non sono un fanatico. Vorrei
che tutto cambiasse, qui in Grecia, senza una singola goccia di sangue. Non
credo alla giustizia applicata in modo personale. Ancora meno credo alla parola
vendetta. Io perfino per coloro che mi hanno seviziato non concepisco la parola
vendetta. Uso la parola punizione e sogno soltanto un processo. Mi basterebbe
soltanto che li condannassero a un giorno di prigione nella cella dove sono
rimasto cinque anni. Tengo troppo alla legge, al diritto, al dovere. Infatti
non ho mai contestato a Papadopulos il diritto di processarmi e di condannarmi.
Io ho sempre protestato per il modo in cui esercitavano la loro condanna, per
le botte che mi davano, per le crudeltà che mi infliggevano, per la tomba di
cemento in cui mi tenevano proibendomi perfino di leggere e scrivere. Ma,
quando uno fa quello che ho fatto io, l’attentato voglio dire, non va contro la
legge. Perché agisce in un paese senza legge. E alla non-legge si risponde con
la non-legge. Mi spiego? Senti: se tu cammini per strada, e non dai noia a
nessuno, e io ti prendo a schiaffi, e tu non puoi nemmeno denunciarmi perché la
legge non ti protegge, che pensi? Che fai? Bada, ho parlato di schiaffi: niente
di più. Uno schiaffo non fa nemmeno male, è solo un insulto. Però deve pur
esistere una legge che mi proibisce di prenderti a schiaffi! Una legge che mi
proibisce perfino di darti un bacio, se tu non lo vuoi! E se questa legge non
esiste, tu cosa fai? Non hai forse il diritto di reagire e magari di uccidermi
perché non ti disturbi più? Farti giustizia da te diventa una necessità! Anzi
un dovere! Sì o no?
Sì.
Io non ho
paura a dirtelo: io conosco anche l’odio. Amo tanto l’amore e sono pieno di
odio per chi uccide la libertà, per chi l’ha uccisa in Grecia ad esempio.
Accidenti, è difficile dire queste cose senza apparire retorici ma... C’è una
frase che ricorre spesso nella letteratura greca: «Felice di essere libero e
libero di essere felice». Sicché quando un tiranno muore di morte naturale nel
suo letto, io... Che vuoi farci? Mi sento travolto dalla rabbia. Travolto
dall’odio. Secondo me è un onore per gli italiani che Mussolini abbia fatto la
fine che ha fatto ed è una vergogna per i portoghesi che Salazar sia morto nel
suo letto. Così come sarà una vergogna, per gli spagnoli, che Franco muoia di
vecchiaia. Accidenti! Non si può accettare che un’intera nazione si trasformi
in un gregge. E ascolta: io non sogno l’utopia. Lo so bene che la giustizia in
assoluto non esiste, non esisterà mai. Però so che esistono paesi dove si
applica un processo di giustizia. Quindi ciò che sogno è un paese dove chi è aggredito,
insultato, privato dei suoi diritti, può chiedere giustizia a un tribunale. È
troppo pretendere? Boh! A me sembra il minimo che possa chiedere un uomo. Ecco
perché me la piglio tanto coi vigliacchi che non si ribellano quando i loro
diritti fondamentali vengono violati. Sui muri della mia cella avevo scritto:
«Odio i tiranni e sono nauseato dai vigliacchi».
Alekos... è
una domanda difficile. Cosa provasti quando ti condannarono a morte?
Sul momento,
nulla. Me l’aspettavo, ci ero preparato, e quindi non provai nulla fuorché la
consapevolezza di contribuire morendo a una lotta che sarebbe continuata
attraverso gli altri.
Ed eri certo
che ti avrebbero fucilato?
Sì.
Assolutamente certo.
Alekos...
questa è una domanda ancora più difficile. E non so se vorrai rispondere. Cosa
pensa un uomo che sta per essere fucilato?
Me lo son
chiesto anch’io. Molte volte. E ho cercato di dirlo in una poesia che
mentalmente scrissi la mattina in cui vennero a chiedermi se domandavo la
grazia ma risposi no... È una poesia che rende bene l’idea di ciò che pensai in
quel momento. Eccola. «Come / i rami degli alberi ascoltano / i primi colpi
dell’ascia / così / quella mattina / i comandi / giungevano ai miei orecchi /
Nello stesso momento / vecchie memorie / che credevo morte / inondavano il
pensiero / simili a singhiozzi / singhiozzi laceranti del passato / per un
domani che non sarebbe giunto / La volontà / quella mattina / era soltanto
augurio / La speranza? / anch’essa si perdeva / ma neanche un momento ero
pentito / che il plotone aspettasse.» E guarda: ch’io sappia, vi sono tre
scrittori che l’hanno spiegato in modo simile a ciò che ho provato io. Uno è
Dostoevskij ne L’Idiota. L’altro è Camus ne Lo Straniero. Il terzo è
Kazantzakis nel libro che racconta la morte di Cristo. Ciò che dice Dostoevskij
lo sapevo: avevo letto L’Idiota. Ma Lo Straniero non lo avevo letto e quando
ciò avvenne, molto tempo dopo, a Boiati, mi turbò scoprire che avevo pensato le
stesse cose mentre aspettavo l’ora dell’esecuzione. Voglio dire, tutte le cose
che uno vorrebbe fare se non stessero per tagliargli la testa. Scrivere una
poesia, ad esempio, o una lettera. Leggere un libro, crearsi una piccola vita
in quella piccola cella. Una vita ugualmente meravigliosa perché vita... Ma
soprattutto mi turbò leggere la versione che Kazantzakis dà sulla morte di
Cristo. In quel libro v’è un momento in cui Cristo chiude gli occhi, sulla
croce, e dorme. E sogna un sogno che è un sogno di vita. Sogna che... Ma non
voglio parlare di questo. Non è bello parlare di questo.
Non importa,
tanto ho capito lo stesso che sognasti di fare l’amore con una donna. Nel libro
di Kazantzakis, Cristo sogna che sta facendo l’amore con Marta e Maria, le
sorelle di Lazzaro. Già... dieci minuti di sonno per sognare la vita... È
giusto così, è bello così. Ma il resto di quella notte come lo passasti?
La cella era
una cella nuda, senza nemmeno una branda. Mi avevano messo una coperta per
terra e basta. Io ero ammanettato. Sempre ammanettato. Così, per un poco,
giacqui ammanettato per terra poi mi alzai e mi misi a parlare coi guardiani. I
miei guardiani eran tre sottufficiali. Giovani, sui ventun anni. Avevan l’aria
di bravi ragazzi e non erano ostili, anzi sembravano tristi per me: molto
abbattuti al pensiero che tra poco mi avrebbero fucilato. Per fargli coraggio
mi misi a discutere di politica. Mi rivolgevo a loro come mi sarei rivolto agli
studenti durante una manifestazione. Gli spiegavo che non dovevano restare inerti,
dovevano combattere per la libertà. E loro mi ascoltavano con rispetto. Gli
declamai anche una poesia che avevo scritto: I primi morti. Sai quella su cui
Teodorakis ha scritto una canzone. Mentre la declamavo, loro scrivevano i versi
sui pacchetti delle sigarette. Poi i tre dettero il cambio ad altri tre, anche
questi tre di leva, e tra questi ce n’era uno che cantava nel coro di una
chiesa. Mi lasciai andare a un gioco crudele. Gli chiesi di cantarmi ciò che
cantano per la Messa funebre. Me lo cantò. E io, sempre scherzando, gli dissi:
«Non mi piacciono certe parole. E quando canterai per me, alla Messa funebre,
non dovrai dire certe parole. Per esempio non dovrai chiamarmi
servo-del-Signore. Nessun uomo è servo di nessuno. Nessun uomo dev’essere servo
di nessuno. Nemmeno del Signore». E lui promise che per me non avrebbe cantato
quelle parole, non mi avrebbe chiamato servo del Signore. Così smettemmo quel
gioco crudele e passammo a cantare altre canzoni di Teodorakis.
Alekos...
cosa prova un uomo quando gli dicono che non lo fucileranno più?
Non mi hanno
mai detto che la pena di morte era sospesa. Per tre anni non me l’hanno mai
detto. E la pena di morte, in Grecia, resta valida per tre anni. In qualsiasi
momento, durante quei tre lunghi anni, avrebbero potuto aprire la porta della
mia cella e dire: «Andiamo, Panagulis. Il plotone di esecuzione ti aspetta». La
prima mattina io mi aspettavo di essere fucilato alle cinque, cinque e mezzo.
Anche la fossa era pronta. Quando vidi che le cinque e mezzo eran passate, e le
sei, le sei e mezzo, le sette, cominciai a sospettare che ci fosse qualcosa di
nuovo. Ma non pensai che la fucilazione fosse sospesa: pensai che fosse
ritardata di qualche ora. Forse l’elicottero aveva avuto un ritardo, forse il
procuratore aveva avuto un intoppo burocratico... Poi, verso le otto, sulla
porta della mia cella venne un plotone. E mi dissi “ci siamo” ma qualcuno
impartì un ordine e il plotone si allontanò. Subito dopo mi dissero che quella
mattina non mi avrebbero fucilato perché era la festa della Presentazione della
Madonna, quindi non avvenivano esecuzioni. Mi avrebbero fucilato il giorno
dopo, 22 novembre. Ricominciò l’attesa dell’alba, e la seconda notte fu come la
prima, e all’alba ero di nuovo pronto. Venne un ufficiale e disse: «Firma la
domanda di grazia e non sarai fucilato». Rifiutai e, nello stesso momento in
cui rifiutavo, udii un altro ufficiale che dava un ordine secco ai soldati:
fuori. E pensai: “Ecco, ci siamo. Ora ci siamo davvero”. Invece non accadde
nulla e nel pomeriggio mi portarono via dalla prigione di Egina. Mi condussero
al porto militare e lì, con la vedetta P21, mi condussero all’ufficio della
polizia militare. Quello degli interrogatori. Qui c’era un ufficiale e mi
disse: «Panagulis, i giornali hanno già annunciato la tua fucilazione. Ora
potremo interrogarti come piace a noi. Ti faremo dire tutto ciò che vogliamo e
morirai sotto le torture. E nessuno lo saprà perché tutti credono che tu sia
già fucilato». Era solo una minaccia malvagia, però: non mi torturarono quel
giorno. All’alba del 23 novembre mi fecero salire su un’automobile e mi
dissero: «Panagulis, gli scherzi sono finiti. Ti portiamo all’esecuzione».
Invece mi portarono a Boiati.
Alekos, io
mi chiedo come tu abbia fatto a mantenere un cervello lucido dopo esser rimasto
cinque anni solo e sepolto dentro una scatola di cemento poco più larga di un
letto. Come hai fatto?
Semplicemente
rifiutando l’idea d’essere stato sconfitto. Del resto non mi sono mai sentito
sconfitto. Per questo non ho mai smesso di battermi. Ogni giorno era una
battaglia nuova. Perché volevo che ogni giorno fosse una battaglia nuova. Non
ho mai permesso a me stesso di cadere nell’inerzia. Pensavo al mio popolo
oppresso e la mia rabbia si trasformava in energia. Proprio questa energia mi
aiutava a immaginare sempre nuovi modi per scappare. Non volevo scappare per il
semplice fatto di scappare, insomma di non stare più in prigione. Volevo
scappare per continuar la mia lotta, per stare di nuovo coi miei compagni. Ero
entrato nella lotta deciso a dare tutto di me e la mia disperazione nasceva
dalla certezza di aver dato troppo poco, di aver fatto troppo poco. Quando la
Grecia era stata travolta dalla dittatura, avevo detto ai miei amici: «La mia
sola ambizione è quella di dare la mia vita per porre fine a questa dittatura,
il mio solo desiderio è quello d’essere l’ultimo morto di questa battaglia. Non
per vivere più degli altri ma per dare più degli altri». Ed oggi, in tutta
sincerità, posso dire la stessa cosa ai miei amici e non mi importa che i
nostri nemici lo sappiano. Anzi. Non mi illudo affatto d’essere vivo il giorno
in cui si festeggerà la vittoria ma credo con tutto il cuore che quel giorno
sarà festeggiato. Perché ciò accada, però, bisogna che io continui a battermi.
E tale idea, insieme all’idea di scappare, mi aiutò in quei cinque anni a non
diventar pazzo.
Ma come
volevi scappare da quella tomba?
Nei modi più
incredibili. Anzitutto pensavo al modo di inviare messaggi ai miei compagni...
Anche sapendo di avere pochissime probabilità di riuscire nella fuga, l’idea
non mi abbandonava mai. Mai. Il mio principio era quello di oggi: fallire è
meglio che cullarsi nell’inerzia. Ora ti racconto due tentativi che fallirono
ma che a me sembrano divertenti. Una sera le guardie aprono la porta della mia
cella, all’ora di sempre, e non mi trovano dentro. Come avevo previsto, quei
mentecatti si lasciano prendere dal panico e incominciano a gridare, ansimare,
accusarsi vicendevolmente, cercarmi sulle pareti, al soffitto, e non pensano di
guardare nell’unico luogo dove avrei potuto nascondermi: cioè sotto la branda.
Ero sotto la branda e mi divertivo tanto ad ascoltarli: «Sei tu che sei entrato
nella cella stamani!». E l’altro: «Sei tu che avevi le chiavi!». «Basta, non
litighiamo! Cerchiamo di trovarlo, piuttosto!» E via, fuori della cella, a dare
l’allarme: lasciando la porta aperta. Così mi lanciai fuori della porta e
corsi, nel buio, per una cinquantina di metri. Mi fermai contro un albero. Da
quest’albero raggiunsi un altro albero, poi l’ombra della cucina, e poi il muro
di cinta. Il campo era un unico urlo: «Allarmi, allarmi!». Gridavo anch’io ma
dicendo: «Allarme cancellato! Cancellato!». Speravo che qualcuno udisse, ci
credesse. Ormai mi mancava solo da saltare il muro. Stavo per saltarlo quando
un soldato mi vide e mi agguantò.
Come ti
sentisti quando ti agguantarono?
Certo non ne
fui felice. Ma non mi arrabbiai e pensai: non importa. La prossima volta andrà
meglio. La prossima volta fu con una rivoltella di sapone. Me l’ero fatta da
me, usando mollica di pane e sapone, e poi l’avevo dipinta in nero con la punta
dei fiammiferi bruciati. Sai, un fiammifero per volta: come se fosse un
pennello. La canna l’avevo fatta con la carta stagnola delle sigarette e
sembrava proprio una canna di metallo. Una sera entrarono come al solito dentro
la cella per portarmi il cibo e... gli puntai addosso la mia rivoltella. Erano
tre. Si spaventarono talmente che quello col vassoio lasciò cadere il vassoio.
Gli altri due invece sembravano paralizzati. E l’intera faccenda era così
comica che non ce la feci a continuare: l’impulso di ridere era troppo forte.
Non ci crederai ma, se non avessi ceduto alla voglia di ridere, forse sarei
riuscito a scappare. Però mi rimase la consolazione d’essermi divertito per un
po’. E non è poco.
Ma quante
volte hai tentato di scappare, Alekos?
Molte volte.
Una volta, per esempio, scavando il muro della mia cella con un cucchiaio. Era
l’ottobre del 1969 e a quel tempo ero riuscito a farmi mettere un water closet
dentro la cella. E poi, con uno sciopero della fame, ero riuscito a farmi
mettere anche una tendina dinanzi al water-closet. Scelsi quel punto per fare
il buco: la tendina serviva come un paravento. Ci lavorai almeno quindici
giorni e il 18 ottobre il buco era pronto. Così mi ci infilai ma non riuscii a
passar subito dall’altra parte perché avevo troppi indumenti addosso. Dovetti
toglierli, gettarli fuori del buco e poi infilarmi di nuovo nel buco. Questo mi
perse. Infatti passò una guardia, vide i vestiti e dette l’allarme.
Immediatamente piombarono sopra di me. L’interrogatorio incominciò subito. Non
volevano credere che avessi scavato il muro con un cucchiaio e basta. Mi
torturarono per sapere come avessi fatto. Oh, non puoi immaginare quanto mi
torturarono! Dopo le torture mi riportarono nella cella e mi tolsero perfino la
branda. Tornai a dormire per terra, su una coperta e basta, e ammanettato. Due
giorni dopo riapparve Theofiloyannakos: «Come hai fatto?». «Con un cucchiaio,
lo sai.» «Non è possibile, non è vero!». «E a me cosa importa se ci credi o no,
Theofiloyannakos?» E fu l’inizio di altri pugni, di altre pedate. Poi, quindici
giorni dopo, venne anche un generale: Fedon Ghizikis. Tutto gentile, educato.
«Non puoi lamentarti, Alekos, se ti tengono ammanettato. Dopotutto hai fatto un
buco nel muro con un cucchiaio!» Ed io: «Non crederai mica a quegli imbecilli?
Non prenderai mica sul serio la storia del cucchiaio? E che? Un muro è forse un
crème-caramel?». Ci rimase male. E, per quel dispetto, dovetti ricorrere a un
altro sciopero della fame. Non volevano restituirmi la branda, né togliermi le
manette. Me le tolsero, infine, e mi restituiron la branda dopo quarantasette
giorni trascorsi a nutrirmi esclusivamente con qualche goccia di caffè. Ci
scrissi anche una poesia.
Quale?
Quella che
si intitola Voglio. «Voglio pregare / con la stessa forza con cui voglio
bestemmiare / Voglio punire / con la stessa forza con cui voglio perdonare /
Voglio dare / con la stessa forza con cui lo volevo all’inizio / Voglio vincere
/ dato che non posso essere vinto.» Ma ora ti racconto un altro tentativo.
Quello che feci alla fine del febbraio 1970. In gennaio mi avevano trasferito
al Centro addestramento della polizia militare a Gudì e tra le guardie c’era un
amico. Pianificai subito una nuova fuga. La mia cella era chiusa da due
lucchetti. Chiesi al mio amico di comprare al mercato quanti lucchetti potesse,
simili a quei due. Insieme ai lucchetti, le chiavi. Me ne portò un centinaio.
Una ad una le provammo, ed una era quella che cercavamo. Ma apriva solo un
lucchetto, evidente. Bisognava dunque trovare anche la seconda. Gli dissi di
tornare al mercato e comprare altri lucchetti. Lo fece e, due giorni dopo, il
16 febbraio, era lui la mia guardia: dalle otto alle undici la mattina, dalle
dieci a mezzanotte la sera. Il mattino lo impiegammo a provare i nuovi
lucchetti e così trovammo la chiave che apriva il secondo lucchetto. Divenni
pazzo di gioia: sarei scappato, quella notte. Anzi, saremmo scappati. Lui non
poteva certo restarsene lì dopo la mia fuga. Tutto era pronto. Un fallimento
sembrava impossibile. E invece... Invece due ore dopo, verso le undici del
mattino, mi vennero a prendere e mi riportarono nuovamente a Boiati. Dove mi
avevano costruito una cella speciale. In cemento armato. Il trasferimento a
Gudì, ora lo capivo, era avvenuto solo per costruirmi una nuova cella. Una
cella sicura, in cemento armato.
La cella in
cui eri fino all’altro giorno?
Sì. E mi ci
chiusero dentro. Da questa nuova cella tentai di fuggire, la prima volta, il 2
giugno del 1971. Allora mi trasferirono di nuovo al Centro della polizia
militare, ma anche qui tentai la fuga: il 30 agosto. Fu la fuga che ebbe più
pubblicità perché v’era coinvolta Lady Fleming e ne seguì quel processo. Vedi,
il segreto è non rassegnarsi, non sentirsi mai una vittima, non comportarsi mai
come una vittima. Io non ho mai fatto la vittima: neanche quando mi consumavo
con gli scioperi della fame. Ho sempre escogitato nuove soluzioni per scappare,
e mi son sempre mostrato di buon umore o aggressivo. Anche se crepavo di
tristezza. La tristezza... La solitudine... Quella l’ho raccontata anche nel
libro di poesie che ha vinto il Premio Viareggio. Guarda: la solitudine la si
vince con la fantasia. Quante vite ho partorito nella mia mente cercando di
vincere la solitudine. E quanto intensamente ho vissuto ogni vita attraverso la
fantasia.
Alekos, una
volta sei riuscito a scappare, però.
Sì, con
Giorgio Morakis che per colpa mia è stato condannato a sedici anni di prigione
e non beneficia nemmeno di questa amnistia perché lo considerano un disertore.
Era un giovane sottufficiale, Giorgio Morakis, e offrì spontaneamente il suo
aiuto. Oh, fu così divertente la mia fuga con Morakis. Io ero vestito da
caporale e avevo in mano il mazzo delle chiavi di tutte le celle. Quando
raggiungemmo l’ultima porta, gettai le chiavi al soldatino di guardia e: «Apri
la porta, marmittone». Il soldatino non mi riconobbe. Scattò sull’attenti, ci
aprì la porta, e io ingiunsi perfino di non far chiasso coi chi-va-là se
fossimo tornati indietro. Capisci, c’era sempre la possibilità di non farcela e
di dover rientrare alla chetichella in galera se non fossimo riusciti a saltare
il muro di cinta. L’ultima porta immetteva al campo militare vero e proprio:
per uscire di lì non c’era che saltare il muro di cinta. Anche se il muro era
molto alto e sormontato da filo spinato. Mi piegai, Morakis salì sulle mie
spalle e saltò il muro. Poi io mi agguantai alle braccia tese di Morakis e via.
A spasso per Atene. Peccato che ci abbiano preso, quattro giorni dopo. Mi
arrestarono in casa di un traditore, Takis Patitsas. Aveva rapporti con
Resistenza Greca, questo Patitsas, fin dal 1967. Lavorava in un’agenzia viaggi
e ci aveva fornito un certo numero di passaporti rubati. Anche per sapere di
lui mi avevano torturato durante l’interrogatorio e naturalmente non avevo
parlato. Infatti Patitsas non era mai stato arrestato. Dopo la fuga andai a
casa sua pieno di fiducia. Contavo di restarvi solo qualche giorno. Il tempo di
avere informazioni e contatti coi compagni del mio gruppo Resistenza Greca. Mi
ricevette con baci ed abbracci ma il giorno dopo lasciò la casa in cui mi
ospitava e riapparve solo dopo quarantotto ore. Parlammo, mangiammo insieme, e
il mattino seguente uscì dicendo che andava a lavorare. Invece non andò a
lavorare. Andò alla gendarmeria e consegnò le chiavi. Ci presero così: aprendo
la porta con le chiavi di Patitsas. Come compenso si prese la taglia di
cinquecentomila dracme. Circa dieci milioni di lire. Parliamo d’altro per
cortesia.
Sì, parliamo
d’altro. Parliamo di Papadopulos.
Senti, io
non posso prendere sul serio questo Papadopulos. È un tipo che puoi capire
soltanto se analizzi la sua storia. Una storia che dimostra subito quanto sia
disonesto, mentalmente malato, bugiardo. Per sei anni ha detto solo bugie e
quante volte, per vomitare il mio disgusto, io gliel’ho scritto! Sai, quelle
lettere che davo al direttore della prigione. In ciascuna lo definivo comico,
pagliaccio, ridicolo, buffone, criminale e mentalmente malato. Non credere che
stia esagerando o che mi faccia prendere dall’ira. Tutte queste cose risultano
abbondantemente dalla sua biografia. È lui il capitano che partecipò al colpo
di Stato, peraltro fallito, del 1951: coi brigantini Cristeas e Tabularis. È
lui che, come tenente colonnello, fu segretario della commissione che preparò
il famoso Piano Pericle con cui tentarono di falsificare i risultati delle elezioni
del 1961. Quando il governo democratico ordinò un’interrogazione sul Piano
Pericle, quel cretino rispose di non conoscere la sintassi greca e quindi non
poter essere il responsabile. Troverai questa notizia sui documenti ufficiali,
peraltro pubblicati su tutti i giornali greci di quel tempo. È lui che
all’inizio del 1965 compì un sabotaggio nel suo reparto e poi torturò
personalmente alcuni dei suoi soldati affinché confessassero che si trattava di
un sabotaggio comunista. Era a capo dell’Ufficio propaganda e guerra
psicologica e chiunque sa che ordinò lui l’assassinio di Policarpos
Gheorgatzis. Chiunque sa che fu lui a voler l’episodio con cui tentarono di
assassinarmi in prigione. Che sia un uomo ridicolo, del resto, lo si può
giudicare anche dal fatto che abbia esteso l’amnistia ai torturatori. Questo
non è forse ammettere che la tortura esisteva? E non equivale forse ad
incoraggiare altre torture?
Sì, ma non
gli impedisce di stare al potere e restarci.
Senti, se mi
rispondi che tutto ciò non esclude la sua capacità di restare al potere, io
replico con un’osservazione. Quando ero a Roma vidi un film con Mussolini che
parlava alla folla da Palazzo Venezia. E, sbalordito, mi chiesi come avessero
fatto gli italiani a dar credito per tanti anni a un uomo così ridicolo che
parlava in modo così ridicolo. Eppure Mussolini era un dittatore potente e a
suo modo capace. Rubare il potere e tenerlo impedisce forse d’esser ridicoli?
La differenza tra Papadopulos e Mussolini è che, bene o male, una base popolare
Mussolini l’aveva. Papadopulos invece non ha neanche quella. Il suo potere si
basa sulla Giunta e basta, cioè su dieci ufficiali che controllano l’intero
esercito. È il piccolo leader di una piccola cricca. Inoltre è in malafede. Non
si presenta come Franco il quale dice: «Il padrone sono io. Punto e basta». Si
presenta parlando di rivoluzione e poi addirittura di democrazia. Democrazia!
Ma che cavolo di democrazia è una democrazia dove uno affronta le elezioni da
solo, senza avere neanche il pudore di inventarsi un avversario e
un’opposizione? Dite: ma tu sei fuori per l’amnistia di Papadopulos. Ma non lo
capite che si tratta di un imbroglio, di una beffa? Non lo capite che dietro
questo suo provvedimento si nasconde uno stratagemma per allungare la tirannide?
Di
Costantino cosa pensi, Alekos?
Sono sempre
stato un repubblicano, naturalmente, e non sarò certo io a sentirmi addolorato
per Costantino. Oltretutto, Costantino creò le condizioni per esser cacciato
dal paese quando forzò Papandreu a dimettersi, nel luglio del 1965. Non mi
interessa sottolineare se Costantino mi piace o no. Mi interessa sapere se
Costantino è utile nella lotta contro la Giunta. Forse sì. Perché Costantino,
forse, ha ancora influenza in alcune sezioni dell’esercito: tra gli ufficiali
soprattutto. Forse, oggi come oggi, non lo possiamo ignorare. E non possiamo
porre il suo problema, attualmente. È ormai un nemico della Giunta. E non ha
ormai altra scelta che quella di restare un nemico della Giunta.
Alekos, ma
tu credi che Papadopulos vi abbia messo fuori per rovesciarlo?
No davvero.
Ma lui crede che non si sia in grado di rovesciarlo. E questo è il suo errore
perché la resistenza in Grecia è una realtà. La gente vi partecipa, sia pure in
modo passivo per ora. Vi partecipa, ad esempio, rifiutando la dittatura
all’unanimità. L’impegno assunto dall’intero mondo politico greco è quello di
seguire la volontà popolare. E tale impegno si manifesta non aiutando
Papadopulos a legalizzare il suo regime. Io sono certo che nessun uomo politico
rispettabile, in Grecia, parteciperà alla mascherata delle elezioni. Devi
capire che possiamo rovesciarlo. Papadopulos non è uscito da una guerra civile
come Franco: è uscito da un colpo di Stato. Quando Franco andò al potere, i
suoi oppositori erano decimati. Sconfitti. Gli ultimi democratici lasciarono la
Spagna come El Campesino. Qui è diverso. Qui nessuno è stato sconfitto. Nessuno
è stato decimato. E, perché la dittatura finisca, basta che il popolo greco non
si addormenti come si addormentò il popolo italiano. Il popolo tende sempre a
dormire, rassegnarsi, accettare. Però basta poco a svegliarlo. Mah! Forse manco
di realismo, di informazioni, e anche di logica. Ma se si parla di logica,
rispondo: quando mai la logica ha fatto la storia? Se la logica facesse la
storia, gli italiani non si sarebbero lasciati affascinare da Mussolini e
Hitler non sarebbe esistito e Papadopulos non sarebbe andato al potere.
Controllava solo alcune unità in tutta l’Attica, e alcune unità in Macedonia. E
quando si parla di politica...
Ma la tua
ideologia politica, Alekos, qual è ?
Non sono
comunista, se è questo che vuoi sapere. Non potrei mai esserlo, visto che
rifiuto i dogmi. Ovunque c’è dogma non c’è libertà, dunque i dogmi a me non
stanno mai bene. Sia i dogmi religiosi che quelli politico-sociali. Chiarito
questo, mi è difficile mettere un distintivo e dire che appartengo a quella o a
quell’altra ideologia. Posso dirti soltanto che sono un socialista: nella
nostra epoca è normale, direi inevitabile, essere socialisti. Però quando parlo
di socialismo, parlo di un socialismo applicato in regime di totale libertà. La
giustizia sociale non può esistere se non esiste la libertà. I due concetti per
me sono legati. Ed è questa la politica che mi piacerebbe fare se in Grecia
avessimo la democrazia. È questa la politica che m’ha sempre sedotto. Oh, se
appartenessi a un paese democratico, credo proprio che mi darei alla politica.
Perché quella che fo ora o che ho fatto finora non è politica: è solo un flirt
con la politica. E a me piace flirtare, sì, però l’amore mi piace molto di più.
In democrazia far della politica diventa bello come far l’amore con amore. Ed è
questo il mio guaio. Vedi, vi sono uomini capaci di far della politica solo in
tempo di guerra, cioè in circostanze drammatiche, e vi sono uomini capaci di
far della politica solo in tempo di pace, cioè in circostanze normali.
Paradossalmente, io appartengo ai secondi. Tutto sommato, tra Garibaldi e Cavor
preferisco Cavour. Però devi capire che dal momento in cui la Giunta ha preso
il potere né io né i miei compagni abbiamo fatto della politica. Né la faremo
fino al momento in cui la Giunta sarà rovesciata. Non dobbiamo fare politica,
non possiamo fare politica ammenoché non si abbia una forza operante. E questa
forza operante è la resistenza, cioè la lotta.
Alekos, tu
dici che paradossalmente appartieni ai cavouriani. Davvero paradossalmente,
visto che come personaggio politico sei diventato famoso attraverso un
attentato alquanto garibaldino. Alekos, ti capita mai di maledire il giorno in
cui facesti quell’attentato?
Mai. E per
le stesse ragioni per cui non mi capita mai di sentirmi pentito. Guarda, mi
sarebbe bastato dire al processo che ero pentito e quelli non mi avrebbero
condannato a morte. Non lo dissi invece, come non lo dico ora, perché non ho
mai cambiato idea. E penso che non la cambierò neanche in futuro. Papadopulos è
colpevole di alto tradimento e di molti altri crimini che nel mio paese vengono
puniti con la pena di morte. Non ho agito da fanatico pazzo e non sono un
fanatico pazzo. Sia io che i miei compagni abbiamo agito come strumenti della
giustizia. Quando a un popolo viene imposta la tirannia, il dovere di ogni
cittadino è uccidere il tiranno. Non bisogna pentirsi e la nostra lotta
continuerà fino a quando la giustizia e la libertà saranno ristabilite in
Grecia. Ho, anzi, abbiamo imboccato una strada da cui non si torna indietro.
Lo so.
Parlami dell’attentato, Alekos.
Era un
attentato preparato bene, fino ai minimi particolari. Avevo previsto tutto.
Dovevo aprire il contatto elettrico delle due mine da una distanza di duecento
metri circa. Le due mine erano piazzate bene. Le avevo fabbricate io. Erano due
buone mine. Ciascuna conteneva cinque chili di TNT e un chilo e mezzo di altro
materiale esplosivo, il C3. Le avevo messe a una profondità di un metro ai due
lati del piccolo ponte che l’automobile di Papadopulos avrebbe attraversato
percorrendo la strada che costeggia il mare da Sunio ad Atene. L’esplosione
doveva espandersi per una larghezza di quarantacinque gradi e aprire una
voragine circolare di circa due metri di diametro. Una sola esplosione sarebbe
bastata, l’esplosione di una sola mina per colpire il bersaglio, purché
l’automobile fosse passata nel momento giusto. Ma, per errore del compagno che
l’aveva messa nel portabagagli dell’automobile, la miccia risultò annodata e
arruffata a tal punto che ne potei recuperare soltanto una quarantina di metri.
Il fatto è che non era possibile aprire il contatto a quella distanza: perché
non avrei avuto alcun posto dove nascondermi. L’unico posto dove potevo
nascondermi era tra otto e dieci metri dal ponte. Dovevo tentare ugualmente.
Compresi immediatamente i difetti e i pericoli di una tale posizione. Il più
grave era che non potevo vedere bene la strada. Avevo fatto molte prove, prima
dell’attentato, e avevo scelto la posizione a duecento metri perché avevo
notato che, quando l’automobile era tra me e il ponte, io la vedevo
seminascosta da un cartello stradale. In quel momento avrei aperto il contatto.
Invece dalla nuova posizione non avevo una buona panoramica della strada,
quindi non potevo scorgere l’automobile nel momento in cui avrei dovuto
accendere la miccia. L’altro difetto di questa posizione era che scappare di lì
sarebbe stato quasi impossibile. Lungo la strada, ogni cinquanta o cento metri
c’era un gendarme. E, più distante, molte macchine della polizia. Una, poi, a
non più di dieci metri.
Quindi
avresti dovuto saltare in mare di lì?
Esatto. E il
motoscafo veloce mi aspettava, nascosto, a ben trecento metri. Capii subito che
scappare era non quasi-impossibile ma impossibile. Decisi di agire ugualmente.
Aprii il contatto e subito saltai in acqua. Nuotai sott’acqua per venti o
trenta metri. Poi uscii fuori per respirare. Realizzai subito che non mi avevano
visto gettarmi in mare. I poliziotti stavano correndo da tutte le parti verso
il punto dell’esplosione. Nuotai ancora un po’ e poi uscii dall’acqua per
raggiungere il motoscafo attraverso le rocce e quindi più velocemente. Correvo
curvo, a testa bassa. E d’un tratto vidi il motoscafo allontanarsi. Il piano
prevedeva che esso mi aspettasse cinque minuti, non più. Non mi disperai,
tuttavia. Il piano aveva un’alternativa: se il motoscafo non avesse potuto
venire oppure se avesse dovuto partire prima di raccogliermi, io mi sarei
nascosto in una roccia fino a notte inoltrata. V’erano molte automobili che mi
avrebbero aspettato in luoghi diversi, e, uscito dal mio rifugio, nel buio,
avrei raggiunto una delle automobili. Certo sarebbe stato scomodo perché
addosso avrei avuto solo le mutandine da bagno ma questo non costituiva un
problema eccessivo. Così mi nascosi dentro una piccola caverna e ci rimasi due
ore. Due ore durante le quali la polizia costiera e quella militare mi
cercarono senza sosta. E fu durante quelle due ore che diventai ottimista: non
mi avevano trovato fino a quel momento, dunque non mi avrebbero trovato più.
Poi accadde quello che dovrei definire fatalità. Proprio sopra la caverna
dov’ero nascosto, stava un ufficiale della gendarmeria. Udii che diceva: «Non è
qui, diamo un’occhiata dietro quella macchia e poi cerchiamolo dall’altra
parte». Ma, mentre stava dirigendosi dall’altra parte, cadde all’indietro e...
mi cadde proprio davanti. Mi vide subito. In una frazione di secondo furono
tutti sopra di me. A colpirmi, a chiedermi: «Chi sei? Dove sono gli altri? Chi
è scappato col motoscafo? Parla, parla!». E giù botte... giù botte... Finsi
d’essere muto e non risposi a nessuna delle domande. Allora mi portarono su e
mi spinsero dentro un’automobile e...
Non
continuare, se non vuoi. Basta così.
Perché?
Nell’automobile, stavo per dire, c’era il ministro della Sicurezza pubblica,
generale Zevelekos, e il colonnello Ladas. Un poliziotto che mi conosceva da
tempo esclamò: «È Panagulis!». Così gli ufficiali credettero che fossi mio
fratello Giorgio. Il capitano Giorgio Panagulis che cercavano dall’agosto del
1967. Si misero a gridare: «Ti abbiamo preso, capitano! Ora ti leveremo la
pelle!». Avrebbero avuto bisogno di altre trenta ore per comprender l’equivoco.
Durante quelle trenta ore applicarono su di me tutti i metodi
dell’interrogatorio più brutale, più infame. Mi dicevano: «Abbiamo arrestato
Alessandro, a Salonicco! E Alessandro soffre ancora più di te in questo
momento!». Mi chiedevano anche di ufficiali che, naturalmente, non conoscevo.
Mi chiedevano ad esempio del generale Anghelis che era a quel tempo comandante
in capo delle Forze armate. Volevano sapere se egli fosse coinvolto
nell’attentato e mi torturavano per saperlo. Eran travolti dal panico e mi
facevano cose tremende ma mi interrogavano tutt’altro che sistematicamente: con
isteria. Quando finalmente compresero che non ero Giorgio ma Alessandro, si
inferocirono a un punto tale che raddoppiarono le sevizie.
Non pensarci
più, Alekos. Forse è atroce dirlo, è andata come doveva andare. Perché oggi sei
un simbolo cui perfino i nemici guardano con ammirazione e rispetto.
Mi sembri
quelli che dicono: «Alekos, sei un eroe!». Non sono un eroe e non mi sento un
eroe. Non sono un simbolo e non mi sento un simbolo. Non sono un leader e non
voglio essere un leader. E questa popolarità mi imbarazza. Mi disturba. Te l’ho
già detto: non sono l’unico greco che ha sofferto in prigione. Io, ti giuro,
questa popolarità riesco a tollerarla solo quando penso che serve quanto
sarebbe servita la mia condanna a morte. E allora la giudico con lo stesso
distacco con cui accettai la mia condanna a morte. Però, anche messa così, è
una popolarità molto scomoda. E antipatica. Io, quando mi chiedete «cosa-farai-
Alekos», io mi sento svenire. Cosa devo fare per non deludervi? Ho tanta paura
di deludere voi che vedete tante cose in me! Oh, se riusciste a non vedermi
come un eroe! Se riusciste a vedere solo un uomo in me!
Alekos, cosa
significa essere un uomo?
Significa
avere coraggio, avere dignità. Significa credere nell’umanità. Significa amare
senza permettere a un amore di diventare un’àncora. Significa lottare. E
vincere. Guarda, più o meno quel che dice Kipling in quella poesia intitolata
Se. E per te cos’è un uomo?
Direi che un
uomo è ciò che sei tu, Alekos.
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