L'eccidio di Cefalonia fu un crimine di guerra compiuto da reparti dell'esercito tedesco a danno dei soldati italiani presenti su quelle isole alla data dell'8 settembre 1943, giorno in cui fu annunciato l'armistizio di Cassibile che sanciva la cessazione delle ostilità tra l'Italia e gli anglo-americani. In massima parte i soldati presenti facevano parte della divisione Acqui, ma erano presenti anche finanzieri, Carabinieri ed elementi della Regia Marina. Analoghi avvenimenti si verificarono a Corfù che ospitava un presidio della stessa divisione Acqui.
La guarnigione italiana di stanza nell'isola greca si oppose al tentativo tedesco di disarmo, combattendo sul campo per vari giorni con pesanti perdite, fino alla resa incondizionata, alla quale fecero seguito massacri e rappresaglie nonostante la cessazione di ogni resistenza. I superstiti furono quasi tutti deportati verso il continente su navi che finirono su mine subacquee o furono silurate, con gravissime perdite umane.
Dopo l'entrata in guerra dell'Italia nel 1940 a fianco della Germania, Mussolini decise di condurre una "guerra parallela" per non restare indietro di fronte alle vittorie conseguite dalla Wehrmacht. In particolare decise di invadere la Grecia, per cercare di affermare i Balcani come sfera di influenza italiana. La spedizione in Grecia tuttavia non ebbe l'esito previsto, e le operazioni presto si arenarono. L'esercito greco, più determinato e avvantaggiato dal terreno e dalla conoscenza dei luoghi, riuscì anche a respingere profondamente le truppe italiane in territorio albanese. Nella primavera del 1941 grazie all'intervento tedesco che fece collassare le difese elleniche, gli uomini del generale Papagos furono costretti alla resa. La Grecia fu così sottoposta a occupazione, spartizione e controllo bipartito italotedesco. Agli italiani, in particolare, venne assegnato il controllo delle Isole Ionie ma guarnigioni tedesche erano dislocate in punti strategici a rinforzo dello schieramento italiano.
Gli schieramenti[modifica | modifica wikitesto]
Strategicamente molto importanti, le isole di Corfù, Zante e Cefalonia presidiavano l'accesso a Patrasso e al Golfo di Corinto[3]. La 33ª Divisione fanteria "Acqui" del generale Antonio Gandin fu stanziata nelle isole, col 18º Reggimento fanteria da montagna a presidio di Corfù e col grosso a Cefalonia, composto dal 17º e 317º Reggimento fanteria da montagna (giunto a Cefalonia nel maggio 1942), dal 33º Reggimento artiglieria, dal comando e dai servizi divisionali[3].
A Cefalonia, oltre alla Acqui, erano presenti la 2ª Compagnia del VII Battaglione Carabinieri Mobilitato più la 27ª Sezione Mista Carabinieri, i reparti del I Battaglione Finanzieri mobilitato, il 110º Battaglione mitraglieri di corpo d'armata, il CLXXXVIII Gruppo artiglieria di corpo d'armata (con tre batterie da 155/14), il III Gruppo contraereo da 75/27 C.K., i marinai che presidiavano le batterie costiere (una da 152/40 e una da 120/50), il locale Comando Marina e tre ospedali da campo per un totale di circa 12.000 uomini. Fino a fine agosto, organica alla divisione era anche la 27ª Legione CC.NN. d'Assalto, che aveva sostituito la 18ª Legione già con la "Acqui" durante la campagna di Grecia[4], ma che fu richiamata in patria alla caduta del fascismo.
Le batterie di artiglieria in funzione antinave, armate con pezzi di preda bellica tedesca di provenienza francese e belga, ma affidate a personale italiano della Regia Marina, furono dislocate sulle coste dell'isola e in particolare nella penisola di Paliki e nei pressi di Argostoli[5]. I reparti presenti a Cefalonia dipendevano dall'VIII Corpo d'armata, a difesa dell'Etolia-Acarnania, mentre il 18º Reggimento dipendeva dal XXVI Corpo d'armata dispiegato in Epiro e Albania[6]. Questi due corpi d'armata comprendevano forze italotedesche in Grecia ed erano inquadrati sotto la 11ª armata con comando ad Atene, dipendente a sua volta dallo Heeresgruppe E tedesco; l'armata in quel momento era comandata dal generale Carlo Vecchiarelli[7]. In questa stessa armata erano inquadrate la 104. Jäger-Division (VII corpo d'armata) e 1. Gebirgs-Division (XXVI corpo d'armata) che prenderanno parte ai successivi avvenimenti.
Progressivamente i tedeschi dispiegarono un loro presidio composto dal Festungs-Infanterie-Regiment 966 (966º Reggimento Fanteria da fortezza) su due battaglioni (Festungs-Bataillon 909 e Festungs-Bataillon 910) al comando dell'oberstleutnant (tenente colonnello) Hans Barge, e dalla 2ª batteria dello Sturmgeschütz-Abteilung 201 (201º Battaglione Semoventi d'assalto)[7], composta da otto StuG III con cannone da 75 mm, più uno Sturmhaubitze 42 da 105 mm. Questi ultimi si posizionarono insieme con una compagnia del 909º nel pieno centro di Argostoli, il capoluogo dell'isola[8]. L'operazione tedesca faceva parte di una progressiva manovra di "incapsulamento" dei reparti dell'11ª Armata di stanza in Grecia, per prevenire eventuali defezioni o cedimenti in caso di sbarco angloamericano.
La Acqui era composta da personale inesperto, come il 317º Reggimento neocostituito e composto da personale richiamato o che non combatteva da due anni, o come il 17º fanteria e il 33º artiglieria che avevano preso parte alla campagna di Grecia, mentre il 966º Reggimento tedesco era forte di circa 1.800 uomini[6]. Lo svantaggio italiano si faceva anche sentire a livello di artiglieria, dove i pezzi, tranne quelli di preda bellica e i 75/27 contraerei, erano quasi tutti obsoleti. Praticamente assente era la Regia Aeronautica, mentre la Regia Marina – oltre a reparti di terra – aveva solo unità di naviglio sottile, tra cui alcuni MAS e dragamine.
I fatti di Cefalonia[modifica | modifica wikitesto]
Il precipitare della situazione[modifica | modifica wikitesto]
Fino ai primi mesi del 1943 la convivenza tra soldati italiani e tedeschi nell'isola non aveva presentato problemi e vennero anche svolte esercitazioni comuni di difesa; le cose cambiarono radicalmente dall'8 settembre di quello stesso anno, quando venne reso noto che il governo Badoglio aveva firmato un armistizio con i britannici e gli statunitensi, denunciando di fatto l'alleanza tra Italia e Germania.
8 settembre[modifica | modifica wikitesto]
Le prime reazioni da parte della Divisione Acqui furono di grande stupore ma anche di gioia, nell'illusione che la guerra stesse per finire. Dopo i festeggiamenti, comunque, alle 20:15 vennero mandate fuori le pattuglie di vigilanza[9]. Un atto ostile venne compiuto dai tedeschi quando uno dei semoventi ad Argostoli puntò il suo cannone contro il dragamine Patrizia, all'ancora, che per risposta puntò a sua volta le mitragliere di bordo[10].
Alle 21:30 dell'8 settembre il generale Vecchiarelli (come comandante dell'11ª armata) inviò un messaggio a Gandin che testualmente riportava[11]:
«Seguito conclusione armistizio, truppe italiane 11ª armata seguiranno seguente linea condotta. Se tedeschi non faranno atti di violenza armata, italiani non, dico non, faranno causa comune con ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero. Reagiranno con forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga al suo posto con i compiti attuali. Sia mantenuta con ogni mezzo disciplina esemplare. Firmato generale Vecchiarelli.» |
I tedeschi avevano comunque iniziato l'attuazione dell'Operazione Achse, consistente nel disarmo forzoso e internamento delle truppe italiane. Poco dopo le 22:30, viene ricevuto l'ordine per le navi presenti e in grado di muoversi di raggiungere immediatamente Brindisi, ancora in mano agli italiani[12].
9 settembre[modifica | modifica wikitesto]
Secondo gli ordini di Gandin della sera prima, il II battaglione del 17º reggimento, in riserva a Mazarakata, insieme a tre batterie del 33º reggimento (la 1ª da 100/17 comandata dal capitano Amos Pampaloni, la 3ª da 100/17 del capitano Renzo Apollonio e la 5ª da 75/13 del capitano Abele Ambrosini[13]), venne spostato ad Argostoli a protezione del quartier generale. Gandin inviò anche una compagnia di fanteria, l'11ª del 17º comandata dal capitano Pantano, a presidiare il bivio di Kardakata, posizione strategicamente importante in quanto situata su delle alture dominanti le coste a est dell'isola[14]. Alle 5 del mattino, un'autocolonna tedesca con vari plotoni di rinforzo proveniente da Lixuri, la parte nord dell'isola dove era acquartierato il grosso del 966º, tentò di passare; gli italiani puntarono le armi costringendo i tedeschi a tornare indietro.
Alle 7 una colonna di rifornimenti scortata da cannoni anticarro venne bloccata alla periferia di Argostoli dai cannoni della 3ª batteria, ma il comando di divisione ordinò poi di lasciarli passare[14]. Alle 9 Gandin ricevette il tenente colonnello Barge per discutere della situazione. Il tedesco chiese di ottemperare alle disposizioni di Vecchiarelli, che erano arrivate anche ai reparti tedeschi della 11ª armata, relative alla non belligeranza contro i tedeschi. Alle 09:50 venne ricevuto un ulteriore dispaccio, sempre da parte del comando di Atene, in cui si ordinava di cedere tutte le armi collettive a disposizione[15]:
«Seguito mio ordine dell'8 corrente ... Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni fino a cambio con reparti tedeschi non oltre però ore 10 giorno 10 ... Siano lasciate ai reparti tedeschi subentranti armi collettive e tutte artiglierie con relativo munizionamento ... Consegna armi collettive per tutte Forze Armate Italiane in Grecia avrà inizio a richiesta Comandi tedeschi a partire da ore 12 di oggi. Generale Vecchiarelli.» |
Sulla base di questo messaggio iniziarono a manifestarsi tra gli ufficiali diverse correnti di pensiero sulla linea di condotta da tenere: alcuni decisamente antitedeschi e altri (i tenenti colonnelli Uggè e Sebastiani) che invece ritenevano di dover continuare a combattere insieme ai tedeschi. In mezzo a questi, molti altri avrebbero voluto la cessione delle armi ai tedeschi, ritenendo impraticabile una seria resistenza[16].
10 settembre[modifica | modifica wikitesto]
La discussione tra i soldati italiani sul da farsi fervette, anche a causa di volantini diffusi dalla resistenza greca che riportavano: "Soldati italiani! È giunta l'ora di combattere contro i tedeschi! I patrioti ellenici sono al vostro fianco Viva l'Italia libera! Viva la Grecia libera!"[17]. In realtà i patrioti ellenici, pur facendosi consegnare armi a questo scopo, non daranno nessun appoggio alla lotta, come gli italiani scopriranno a loro spese. Nel frattempo il comando e la truppa della Acqui vengono informati dal sergente Baldessari, proveniente dal presidio di Santa Maura che il presidio è stato catturato dai tedeschi, e il suo comandante colonnello Ottalevi e due ufficiali sono stati uccisi. Secondo alcuni, i tedeschi richiesero la consegna delle armi individuali dopo aver ottenuto la consegna delle armi pesanti[18] mentre secondo altri i tedeschi furono "provocati".[19]
Durante l'incontro tra Gandin e Barge entrambe le parti prendevano tempo; da parte italiana si aspettava un chiarificarsi della situazione e istruzioni dettagliate dal Comando Supremo con possibili rinforzi, ignorando che lo stesso Comando non era in grado di operare per la fuga a Brindisi del re Vittorio Emanuele III e dello stato maggiore, mentre i tedeschi cercavano ancora di ottenere il disarmo in modo incruento. I tedeschi programmarono comunque la fucilazione di eventuali resistenti: un telegramma dello Heeresgruppe E ai comandanti delle grandi unità dipendenti dice testualmente[20]
«Dove vi sono reparti italiani o nuclei armati che oppongono resistenza bisogna dare un ultimatum a breve scadenza. Nell'occasione occorrerà dire con veemenza che gli ufficiali responsabili di questo tipo di resistenza verranno fucilati quali franchi tiratori se, alla scadenza dell'ultimatum, non avranno dato alle loro truppe l'ordine di consegnare le armi.» |
Ma tra le truppe italiane molti soldati e anche vari ufficiali inferiori erano per la resistenza ai tedeschi, principalmente Apollonio, Pampaloni e Ambrosini tra gli ufficiali del 33º reggimento artiglieria, manifestando dubbi su Gandin, insignito di croce di ferro dai tedeschi per le sue azioni sul fronte russo e con relazioni personali nell'OKW; anche la quasi totalità dei marinai a cominciare dal loro comandante capitano di fregata Mastrangelo e i suoi ufficiali[21].
Gandin invece, valutando che la superiorità numerica locale non compensava la presenza di oltre 300 000 tedeschi tra Epiro e Jugoslavia e la numerosa aviazione germanica, cercava di trattare una resa onorevole, non avendo alcuna evidenza di un possibile aiuto alleato al combattimento o all'evacuazione. Per questo consultò gli ufficiali dello stato maggiore e i comandanti di reggimento in merito alla ricerca di un parere sulla eventuale cessione delle armi; il colonnello Romagnoli, comandante del 33º reggimento artiglieria, e Mastrangelo erano per la resistenza mentre il generale Gherzi, vicecomandante della divisione e comandante della fanteria, il tenente colonnello Fioretti, capo di stato maggiore della divisione, il tenente colonnello Cessari, comandante del 17º reggimento fanteria, e il maggiore Filippini, comandante del genio divisionale, erano per la cessione delle armi pesanti secondo le richieste tedesche[20].
11 settembre[modifica | modifica wikitesto]
I tedeschi presentarono un ultimatum in nove punti a firma di Barge, imponendo il disarmo totale della divisione con la consegna delle armi nella piazza centrale di Argostoli entro il 12 settembre alle ore 18 davanti all'intera popolazione (punti 1 e 3), proibendo altresì (punto 5) la consegna di materiale alla "popolazione" greca; il punto 6 minacciava un intervento "senza riguardo" in caso di sabotaggi o violenze contro i tedeschi mentre il punto 7 prometteva genericamente "agli ufficiali e soldati disarmati un trattamento cavalleresco"[22]. Gandin rispose con una lettera con oggetto "Richiesta di chiarimenti" dove tra l'altro sottolineava l'impossibilità di adempiere nei tempi richiesti alla consegna dei materiali.
A quel punto la quasi totalità dell'artiglieria della Divisione Acqui (non solo il 33º ma anche l'artiglieria divisionale) e i reparti della Regia Marina, venuti a conoscenza delle condizioni di resa, si rifiutarono categoricamente di accettare l'ultimatum, preparando un piano di azione contro i tedeschi, designando gli obiettivi e cercando accordi con i partigiani greci dell'ELAS[23]. La nuova richiesta di Barge, che come unica concessione prevedeva la consegna delle armi in luogo "nelle vicinanze di Argostoli" per evitare il disonore di una resa pubblica, pervenne al quartier generale ma non faceva alcun cenno al trasferimento in Italia della divisione[24]. Nella giornata, anche se vi sono dubbi sull'ora dell'esatta ricezione e per alcuni sopravvissuti anche del giorno (il 13 invece dell'11), arrivò un radiomessaggio del generale Rossi, vice del capo di stato maggiore generale Ambrosio: "Considerare le truppe tedesche nemiche"[25].
Gandin alle 17 incontrò i sette cappellani della divisione, ai quali illustrò la situazione e chiese anche a loro un parere; tranne uno, tutti invitarono Gandin a cedere le armi. Alle 17:30 Gandin incontrò poi Barge chiedendogli una dilazione fino all'alba; per tranquillizzare i tedeschi che già stavano sbarcando rinforzi nella parte dell'isola vicina alla costa e sotto il loro parziale controllo, propose il ritiro dei reparti che presidiano le alture di Kardakata, dalla quale si dominano le spiagge dove questi reparti sbarcavano e le due strade che lì si incrociavano facendone uno snodo strategico per spostarsi sull'isola[26]. Questo ritiro però non si estendeva all'artiglieria dislocata sulla penisola di Paliki e presso Fiskardo, le cui batterie sarebbero quindi rimaste sotto la minaccia tedesca senza la protezione della fanteria. Nel frattempo i quattro dragamine ancorati a Fiskardo salparono verso l'Italia dopo aver legato il loro comandante; Fioretti e Barge iniziarono un lungo colloquio per specificare i dettagli del disarmo.
12 settembre[modifica | modifica wikitesto]
In seguito all'ordine di arretramento su Razata inviato al II Battaglione del 317º, molti soldati contestarono e si rifiutarono di caricare le munizioni sui mezzi e due mitragliatrici vennero puntate sugli autocarri; dopo l'intervento di alcuni ufficiali inferiori, arrivò il maggiore Fanucchi, comandante del battaglione, che fu ferito di striscio da un colpo di fucile. Il fatto ebbe l'effetto di placare gli animi e la protesta rientrò. Nel frattempo il piano di sbarazzarsi con la forza dei tedeschi veniva dettagliato e le batterie del 33º entrarono in stato di allarme, senza l'avallo del comando di divisione[27]. La stazione radio della Marina si mise in contatto con le forze navali alleate a Malta con un radiogramma in chiaro, che viene intercettato dai tedeschi, come tutto il traffico in entrata e uscita dall'isola.
Nella risposta, il comando alleato ricordò (ma il fatto non era a conoscenza dei militari sull'isola) che la corazzata Roma era stata affondata e che i tedeschi dovevano essere considerati come nemici[28]. Esiste un'altra versione, raccontata nel documentario RAI Tragico e glorioso 1943 del 1973, secondo la quale questa informazione sarebbe stata trasmessa dalla sala radio della corazzata Vittorio Veneto sempre a Malta. Le parole usate nel video furono "La Roma è stata affondata; non cedete le armi". I tedeschi nel frattempo annullarono il previsto bombardamento su Argostoli, ma mentre Barge era ancora convinto di poter effettuare il disarmo, le spinte insurrezionali aumentarono di ora in ora; un ufficiale, il capitano Gazzetti, venne ucciso per aver rifiutato di consegnare immediatamente il camion col quale stava trasferendo delle suore ad alcuni marinai che volevano trasportare armi[29].
Mentre Barge alle 16 riprendeva i colloqui con il comando della Acqui, i tedeschi disarmarono e presero prigioniero il personale delle batterie costiere che da San Giorgio (2ª Batteria da 105/28 dell'artiglieria divisionale) e da Chavriata (2ª Batteria da 100/17 del 33º Reggimento), nella penisola di Paliki, controllavano dal nord la baia di Argostoli e lo stesso comando tedesco a Lixuri[30]. Un semovente tedesco della 201ª Batteria puntò il cannone contro la 3ª Batteria, ma immediatamente venne puntato da un pezzo della stessa e dai pezzi della 5ª Batteria di Ambrosini e dovette andarsene. Inoltre vi furono richieste molto pressanti da parte di alcuni ufficiali del 33º Reggimento artiglieria, tra i quali Amos Pampaloni e Renzo Apollonio, che arrivarono addirittura, secondo i resoconti del tenente colonnello Giovanni Battista Fioretti dello stato maggiore della divisione, al limite dell'ammutinamento tanto che lo stesso gli si rivolse in questo modo "Siete venuti qui in veste di comandanti di reparto o come capibanda?", al fine di iniziare le ostilità contro i tedeschi[31]. Ci furono anche gesti di intolleranza nei confronti di Gandin e, in un episodio, un carabiniere addirittura lanciò una bomba a mano verso la vettura nella quale stava transitando il generale, ma l'ordigno non esplose[32].
13 settembre[modifica | modifica wikitesto]
Alle 2 del mattino il tenente colonnello Siervo, comandante del II/317º, informò di persona Pampaloni che, dietro ordine di Gandin, il suo battaglione doveva essere spostato presso il cimitero di Argostoli; questo implicava che le tre batterie (1ª, 3ª e 5ª) che presidiavano il porto non avrebbero avuto alcuna copertura di fanteria per difendersi da eventuali attacchi[33]. Immediatamente Pampaloni si consultò con Siervo e col colonnello Romagnoli, comandante del 33º, chiedendo di far revocare l'ordine, ma Romagnoli, sentito Siervo sull'affidabilità sotto il fuoco del suo battaglione, non ritenne di poter acconsentire; il II/317º si spostò presso la nuova posizione[34].
Alle 6 del mattino, il colonnello Ricci assistette al bombardamento di piroscafi italiani partiti da Patrasso da parte di velivoli tedeschi[34]. Ad Argostoli, Pampaloni svegliò Apollonio comunicandogli che due motozattere tedesche, secondo una sua valutazione "zeppe di uomini e mezzi", stavano per attraccare alla banchina, a pochissima distanza dal comando di divisione e dalla guarnigione tedesca in città comandata da Fault[35][36]. Apollonio osservò e allertò anche la 5ª batteria di Ambrosini, peraltro già con i serventi ai pezzi di loro propria iniziativa. Come più anziano in grado, Apollonio diede l'ordine di aprire il fuoco, ma le due mitragliere Breda da 20 mm rimosse dal dragamine Patrizia e aggregate alla 3ª batteria iniziarono autonomamente a sparare sui due pontoni[35]. Le due motozattere, la F494 e la F495, vennero quindi colpite dal fuoco ravvicinato di mitragliere, cannoni da 100/27 e 75/13 dell'esercito e ben presto dai pezzi da 120 mm e 152 mm della Marina posti a Lardigò (attualmente Ammes) e Minies (ora Avithos). Un mezzo affondò, l'altro attraccò protetto da una cortina fumogena stesa dai cannoni tedeschi che sparano dalla penisola di Paliki e dai semoventi della 2ª batteria del 201º battaglione di Argostoli[35].
I tedeschi dopo aver fatto approdare la motozattera, ricevettero ordine da Barge di cessare il fuoco mentre questi contattò il quartier generale della Acqui per chiedere altrettanto, ma quando il capitano Postal, aiutante maggiore di Romagnoli, notificò l'ordine di Gandin a Pampaloni, "la linea cade in continuazione"[37][38]; la 5ª batteria rifiutò di eseguire un ordine che venga da "traditori" e non da Apollonio. Presentatosi direttamente alla 3ª batteria, intimò di cessare il fuoco, ma Apollonio rispose che i tedeschi stavano ancora sparando. Dopo assicurazione di Postal che anche i tedeschi hanno ricevuto analogo ordine, non ordinò il cessate il fuoco se non dopo una minaccia di Postal con le testuali parole "Guarda che qui va a finir male"[37][38][39]. Durante lo scontro, la 411ª batteria del 94º gruppo di artiglieria abbandonò la posizione per sbarrare l'accesso al comando di divisione[40]. Alla fine i tedeschi contarono 5 morti e 8 feriti, mentre gli italiani un ferito grave, ma i fanti del 17º e del 317º non erano in alcun modo intervenuti nel combattimento anche quando i tedeschi avevano assaltato le batterie al porto[41].
Dopo l'episodio i tedeschi, che ancora non avevano disponibile un numero sufficiente di truppe sull'isola, tentarono un ulteriore negoziato, promettendo un imbarco per l'Italia controllata dai tedeschi, a condizione che le truppe avessero ceduto le armi e si fossero concentrate nei porti di Sami e Poros, già sapendo che questo non sarebbe mai avvenuto, in ottemperanza alle disposizioni di Hitler contenute nel piano Achse; il negoziatore nella circostanza, tenente colonnello della Luftwaffe Hermann Busch, chiese anche di conoscere i nomi degli ufficiali che avevano aperto il fuoco con le motozattere[42]. Nel frattempo il numero degli ufficiali fautori della resistenza ai tedeschi aumentava, comprendendo anche il tenente colonnello Deodato e il capitano dei carabinieri Gasco, da cui dipendeva il militare che aveva lanciato la bomba a mano verso la macchina di Gandin. Gandin diffuse un messaggio alle truppe che recitava[43]:
«A tutti i Corpi e Reparti dipendenti. Comunico che sono in corso trattative con rappresentanti il Comando Supremo Tedesco allo scopo di ottenere che alla Divisione vengano lasciate le armi e le relative munizioni. Il generale di Divisione Comandante Gandin» |
Contemporaneamente il generale Lanz decollò da Giannina per Cefalonia con un idrovolante, ma mentre tentava di ammarare ad Argostoli venne preso di mira dalla contraerea italiana e scese a Lixuri, da dove telefonò a Gandin. Non vi sono tracce scritte della conversazione, ma mentre Lanz testimonierà al processo di Norimberga che il generale italiano era stato informato di quell'ordine senza scampo (la fucilazione in caso di resistenza), così come Barge, nessun sopravvissuto tra gli italiani accennò a un simile fatto, tanto meno si evince dall'ultimatum inviato da Lanz a Gandin in quell'occasione, che ammonisce solo che (punto 2) se non verranno cedute le armi, le forze armate tedesche costringeranno alla cessione. e dichiara che (punto 4) la divisione che ha fatto fuoco su truppe e navi tedesche... ha compiuto un aperto ed evidente atto di ostilità[44].
Nel contempo, un'ulteriore provocazione veniva fatta dai tedeschi che nella piazza principale di Argostoli, piazza Valianos, ammainavano la bandiera italiana, ma venivano prontamente disarmati dai soldati della Acqui che issavano nuovamente la bandiera sul pennone[45]. Nel frattempo a Corfù un battaglione della divisione Edelweiss che tentava di sbarcare veniva respinto con poche perdite ma gravi danni ai mezzi da sbarco, il che poneva i tedeschi in difficoltà nel tentativo di sopraffare la Acqui, mentre il negoziatore sul posto, maggiore Harald von Hirschfeld, relazionava sulle possibili ulteriori modalità di attacco all'isola[46]. Il maggiore sarà in seguito pesantemente coinvolto nel massacro[47].
Mentre durante la giornata Apollonio, Pampaloni e Ambrosini erano stati convocati al comando di divisione, e il vice di Gandin, Gherzi, era arrivato ad apostrofare Pampaloni dicendo tu sei una testa calda, e questi rispondeva che tra le truppe si parla di tradimento da parte del comando di divisione[36], la possibile resa si trasformò in decisione di resistenza; ulteriori fatti, come il pesante bombardamento di Corfù e in particolare il capoluogo Kerkira da parte della Luftwaffe, la ricezione di un messaggio da Zacinto che annunciava la resa del generale Paderni e quattrocento militari italiani, prontamente spediti in Germania, e la certa (a questo punto) ricezione del radiomessaggio a firma Ambrosio che invita a considerare truppe tedesche come nemiche e regolarvi di conseguenza fecero sì che Gandin riposizionasse i due reggimenti di fanteria in funzione del combattimento, con uno schieramento orientato verso la costa greca e il presidio tedesco di Argostoli[48]. Infine, secondo alcune fonti, Gandin avrebbe promosso un referendum tra le truppe per saggiare la loro volontà di combattere i tedeschi[49], mentre altre fonti mettono pesantemente in discussione questa ipotesi[50][51].
14 settembre[modifica | modifica wikitesto]
Il 14 settembre alle ore 12 Gandin informò i tedeschi del risultato del "referendum" effettuato tra i soldati della Divisione, rimarcando sulla scarsa fiducia che i soldati avevano nelle promesse dell'ex alleato di rimpatriarli accontentandosi delle armi pesanti e collettive; nella versione tedesca della lettera Gandin disse tra l'altro "La divisione si rifiuta di eseguire l'ordine di radunarsi nella zona di Sami perché teme di essere disarmata, contro tutte le promesse tedesche... la divisione preferirà combattere piuttosto che subire l'onta di una cessione delle armi..."[52]. Di questa lettera esistono diverse versioni, riportate da padre Romualdo Formato e dal capitano Bronzini, con toni più ultimativi ma di analogo contenuto[52].
Nel frattempo i tedeschi (il tenente colonnello Barge) avevano già spostato il 910º battaglione granatieri da fortezza sulle alture di Kardakata che Gandin aveva abbandonato come segno di buona volontà e dato disposizione alle truppe presenti ad Argostoli (parte del 909º battaglione e i semoventi d'assalto) di tenersi pronti ad attaccare il comando della Acqui e le batterie di artiglieria italiane[53]. Mentre i tedeschi continuavano a fare affluire truppe sull'isola, gli italiani compirono operazioni di tipo difensivo come il brillamento di cariche esplosive su crocevia e strade per renderle impraticabili, ma impedendo anche il passaggio dei propri rifornimenti e rinforzi[54]. Non era ancora noto alla divisione che gli Alleati avevano deciso di non inviare alcun aiuto a Cefalonia per ragioni politiche, cioè non danneggiare i rapporti con l'Unione Sovietica che riteneva di fatto i Balcani una sua esclusiva zona di influenza[54].
Inizia la battaglia[modifica | modifica wikitesto]
Il 15 settembre i tedeschi, in quel momento inferiori di numero, fecero pervenire sull'isola nuove forze: il 3º battaglione del 98º Reggimento da montagna e il 54º Battaglione da montagna, appartenenti alla 1. Gebirgs-Division (1ª Divisione da montagna) Edelweiss, il 3º battaglione del 79º Reggimento artiglieria da montagna, e il 1º battaglione del 724º Reggimento cacciatori, quest'ultimo inquadrato nella 104. Jäger-Division (104ª Divisione cacciatori)[7], sotto il comando del Maggiore Harald von Hirschfeld, coadiuvati dalla presenza dell'aviazione tedesca con i suoi Stuka alla quale gli italiani potevano opporre solo il fuoco di alcune mitragliere contraeree da 20 mm e il tiro contraereo dell'unico gruppo da 75/27 e di pezzi di artiglieria da campagna.
La precedente decisione di abbandonare le alture al centro dell'isola assunta da Gandin come segno pacificatore verso i tedeschi si trasformò in un cruciale svantaggio tattico, in quanto da quelle alture si sarebbero potuti battere i punti di sbarco ostacolando notevolmente i rinforzi tedeschi. Ciononostante, le truppe italiane si batterono tenacemente, contendendo per una settimana il terreno ai tedeschi. Dal 16 al 21 settembre la resistenza fu accanita, soprattutto da parte del 33º Reggimento di artiglieria e delle batterie costiere della Regia Marina, fino a quando non vennero a mancare le munizioni e la glicerina per lubrificare i pezzi. Alcune batterie da campagna dovettero essere abbandonate dopo essere state rese inutilizzabili perché esposte all'avanzata delle truppe tedesche, sempre protette da un efficace mantello aereo.
Il 22 settembre il generale Gandin decise di convocare un nuovo Consiglio di Guerra nel quale si decise di arrendersi ai tedeschi. La tovaglia bianca sulla quale i comandanti mangiavano tutte le sere venne issata sul balcone della casa che era sede del comando tattico in segno di resa. A questo punto, Hitler in persona ordinò che i soldati italiani fossero considerati come traditori e fucilati. I soldati che erano stati in precedenza catturati e fatti prigionieri furono immediatamente e sommariamente giustiziati; i tedeschi che cercarono di opporsi furono dissuasi con la minaccia di essere a loro volta fucilati. I rastrellamenti e le fucilazioni andarono avanti per tutto il giorno seguente, e si fermarono solo il 28 settembre non risparmiando neanche Gandin, morto la mattina del 24. In particolare, 129 ufficiali furono fucilati presso una villa chiamata Casa Rossa e 7 subirono la stessa sorte il 25 settembre perché, nell'ospedale dove erano ricoverati, il giorno prima si era verificata la fuga di due ufficiali.
Compiuto l'eccidio, i tedeschi cercarono di farne scomparire le tracce: con l'eccezione di alcune lasciate insepolte o gettate in cisterne, la maggior parte delle salme furono bruciate e i resti gettati in mare. I superstiti furono caricati su navi destinate ai porti greci e dai porti greci ai treni con destinazione Polonia (Auschwitz, Treblinka e Ghetto di Minsk), ma due di esse (Motonavi Sinfra e Ardena) incapparono in campi minati e affondarono, e la Mario Roselli fu colata a picco da aerei alleati, che non conoscevano il suo carico umano. Tra i pochissimi scampati all'eccidio e alla successiva prigionia ci fu il cappellano militare Romualdo Formato, autore negli anni 1950 di un libro intitolato appunto "L'eccidio di Cefalonia", e lo scrittore e conduttore televisivo Luigi Silori.
Corfù e Zacinto[modifica | modifica wikitesto]
Anche le guarnigioni della "Acqui" stanziate a Corfù, Zante (Zacinto) e Leucade (Santa Maura) furono sopraffatte dai tedeschi, quest'ultima quasi subito data l'esiguità del presidio.
A Corfù i fanti del 18º reggimento fanteria e un gruppo di artiglieria del 33º reggimento artiglieria, circa 4.500 uomini comandati dal colonnello Luigi Lusignani[55], il 13 settembre, catturarono il presidio tedesco,[55] composto da 450-550 militari della Wehrmacht, dei quali 441 (di cui 7 ufficiali) il 21 settembre furono fortunosamente trasferiti in Italia, scortati da alcune decine di carabinieri, su pescherecci mobilitati dal locale capo partigiano Papas Spiru: questi furono, in Italia, gli unici prigionieri di guerra tedeschi in mano a Badoglio, ed è verosimile che si debba a essi, per reciprocità, il mancato eccidio della "Acqui" a Corfù, a differenza di Cefalonia[56].
Il colonnello Lusignani il 12 e 13 settembre aveva già richiesto al Comando Supremo il reimbarco degli uomini con vari fonogrammi e inviando a Brindisi il maggiore Capra[57]. In ogni caso Lusignani aveva considerato l'ordine di resa del generale Vecchiarelli come apocrifo[55].
A coadiuvare i fanti del 33º si erano affiancati il giorno 13 i fanti del I Battaglione del 49º Reggimento fanteria "Parma" comandati dal colonnello Elio Bettini, e altri reparti per un totale di 3.500 uomini[55]. Il 21 settembre gli inglesi aviolanciarono su Corfù la missione militare Acheron[55]. Successivamente i rinforzi tedeschi sbarcati il 24 e 25 settembre[55] e dotati di un consistente supporto aereo sopraffecero gli italiani che si arresero il 26 settembre dopo furiosi combattimenti e l'esaurimento delle munizioni. Lusignani venne fucilato il giorno dopo insieme a Bettini e 27 ufficiali, mentre varie centinaia di soldati avevano perso la vita durante i combattimenti[55]. A Lusignani e Bettini verrà concessa la medaglia d'oro al valor militare[55].
Le perdite[modifica | modifica wikitesto]
Quando si parla di perdite della Divisione Acqui a Cefalonia è necessario distinguere tra:
- perdite avvenute durante i combattimenti dal 15 al 22 settembre 1943 (data della resa italiana);
- perdite avvenute dal 24 al 28 settembre a titolo di "rappresaglia" sui militari prigionieri;
- perdite avvenute in mare - nei mesi successivi - a causa dell'affondamento di alcune navi che trasportavano i prigionieri in Grecia, ovvero il piroscafo Ardena[55] di 1.098 tsl e stracarico di 840 prigionieri saltato su una mina il 28 settembre con la morte di 720 prigionieri[58] e il piroscafo Marguerite anch'esso saltato su una mina il 13 ottobre 1943 con la morte di 544 dei 900 prigionieri a bordo (complessivamente, quindi, i morti in mare tra i prigionieri di Cefalonia furono 1.264); la motonave Mario Roselli, con prigionieri di Corfù, fu affondata nella rada di Corfù da un attacco aereo alleato il 10 ottobre, con 1.302 morti tra i 5.500 prigionieri italiani che vi erano stati caricati[4];
- perdite avvenute in prigionia nei campi di concentramento tedeschi e di altri paesi da questi occupati.
Secondo Giorgio Rochat la Divisione Acqui avrebbe perso in combattimento 1.200 soldati e 5.000 nei massacri seguenti, mentre i tedeschi fanno indirettamente salire questo numero (i rapporti indicavano 5.000 soldati italiani sopravvissuti agli scontri) a 6.500. Queste cifre comprendono in ogni caso il generale Gandin e 193 ufficiali, fucilati tra il 24 e il 25 settembre, più altri 17 marinai uccisi dopo aver seppellito i corpi dei loro commilitoni. I sopravvissuti, quantificati in una sessantina, trovarono rifugio tra la popolazione o tra i partigiani greci[58]. Anche Arrigo Petacco è su questa linea di pensiero, stimando i caduti di Cefalonia in oltre 400 ufficiali e 5.000 soldati oltre ai 2.000 periti in mare, mentre i sopravvissuti furono meno di 4.000[59]. Ancora, l'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia quantifica le perdite complessive dei soldati stanziati a Cefalonia a 390 ufficiali e 9.500 uomini di truppa.
I superstiti furono in tutto circa 2.000 uomini di truppa. La maggior parte furono deportati prima in Germania e poi in Unione Sovietica, da dove molti non fecero ritorno[60]. Per ultimo, Alfio Caruso nel suo Italiani dovete morire riporta 1.300 italiani morti durante i combattimenti e 5.000 passati per le armi: a questi numeri vanno aggiunti anche 3.000 naufraghi periti nel viaggio verso la terraferma, per un totale di 9.000 soldati e 415 ufficiali a fronte di 1.500 morti, 19 aerei e 17 mezzi da sbarco distrutti inflitti alla Wehrmacht[61]. Non si conosce il numero preciso degli internati nei campi tedeschi e ghetti nella Polonia occupata dai tedeschi. All'ottobre 2015 l'Associazione nazionale Divisione Acqui ha censito i nominativi di 4.439 reduci da tali luoghi di prigionia, tornati in patria dopo la fine degli eventi bellici.
I processi legati alla vicenda[modifica | modifica wikitesto]
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L'eccidio di Cefalonia ha tuttora un solo colpevole: il generale Hubert Lanz, capo del XII Corpo d'armata truppe da montagna della Wehrmacht dall'agosto 1943 all'8 maggio 1945[7], venne infatti condannato dal tribunale di Norimberga a 12 anni di reclusione, sebbene ne abbia poi scontati solo tre (la pena fu così mite perché, incredibilmente, nessuno si presentò da parte italiana a testimoniare al processo). Nel 1957 in Italia furono prosciolti (secondo alcuni per non danneggiare l'immagine dell'esercito[62]) degli ufficiali della Acqui accusati di aver istigato gli uomini contro i tedeschi dando così origine ai combattimenti e sempre nello stesso anno si iniziò un altro processo nei confronti di 30 ex soldati tedeschi, risoltosi l'anno successivo con un nulla di fatto[63].
Nel 1964 anche la Germania aprì un'inchiesta sulla vicenda una volta ricevuto del materiale da Simon Wiesenthal, ma quattro anni dopo la procura di Dortmund archiviò il caso per riaprirlo nel 2001, prendendo in esame sette ex ufficiali della Wehrmacht. Tra questi figurava anche Otmar Muhlhauser, capo del plotone di esecuzione che fucilò Gandin, prosciolto dalla procura di Monaco di Baviera nel settembre del 2007 perché reo di aver commesso un omicidio "semplice", non rientrante nella categoria di crimini di guerra; stessa sorte subirono gli altri sei imputati[63]. Dietro la segnalazione di due donne italiane che persero il padre a Cefalonia, la procura militare di Roma aprì un nuovo fascicolo il 2 gennaio 2009 chiamando al banco degli imputati il solo Muhlhauser, ma non si poté fare molto perché il 1º luglio dello stesso anno l'ex militare tedesco, ormai ottantanovenne, morì, e così il processo terminò il 5 novembre (data del rinvio per accertare le condizioni di salute dell'imputato)[63].
All'inizio del 2010 il tribunale militare di Roma ha iniziato una nuova azione legale nei confronti di Gregor Steffens e Peter Werner, entrambi ottantaseienni e appartenuti al 966º Reggimento Granatieri da fortezza, accusati di aver ucciso 170 soldati italiani che si erano arresi. Alla procura di Dortmund nel 1965 e nel 1966 si erano dichiarati innocenti e a Roma i due ex militari hanno fatto altrettanto.
Il 18 ottobre 2013 il Tribunale militare di Roma ha riconosciuto la responsabilità penale del caporale della Edelweiss Alfred Stork condannandolo all'ergastolo per il massacro compiuto nel settembre del 1943 sull'isola di Cefalonia in esecuzione dello specifico ordine di Hitler e in spregio delle convenzioni internazionali che, anche all'epoca dei fatti, imponevano un trattamento umano dei militari che avevano ormai deposto le armi; Stork a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943.
Cerimonie, documentari e copertura mediatica[modifica | modifica wikitesto]
A ricordo della Divisione Acqui è stato eretto un monumento di Mario Salazzari a Verona, e il 21 settembre di ogni anno viene commemorato l'eccidio alla presenza di autorità civili e militari.
- Il 1º marzo 1953, il Presidente della Repubblica Italiana Luigi Einaudi ha assistito al ritorno dei resti dei soldati, durante una grandiosa cerimonia al porto di Bari.
- Il 22 novembre 1980 il primo Presidente della Repubblica che visita il Monumento ai Caduti della Divisione Acqui di Cefalonia, appena eretto (1978), è Sandro Pertini. Nel suo discorso sottolineò, tra le altre cose, che "[...] proprio qui, il martirio del popolo greco e di quello italiano si sono uniti. E si sono uniti in un'unione di sacrificio e di sangue, come per suggellare quella che deve essere lìalleanza fra la Grecia e l'Italia".[senza fonte] Fonte: Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica, Discorsi e messaggi del Presidente della Repubblica Alessandro Pertini, vol. II, Roma, Bulzoni, 2009, pp. 431-33 (dove è riportata erroneamente la data del 23 novembre)
- Nel 1993, lo scrittore britannico Louis de Bernières pubblicò il suo romanzo di maggior successo dal nome Captain Corelli's Mandolin ispirato dall'eccidio. Il libro ottenne un ottimo successo di critica e di pubblico e nel 2001 venne portato sullo schermo dal regista John Madden e con la presenza del Premio Oscar Nicolas Cage nel ruolo del Capitano protagonista. Il titolo in italiano scelto per il film, accolto peraltro freddamente da pubblico e critica, è stato Il mandolino del capitano Corelli.
- Il 1º marzo 2001 il Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi ha visitato Cefalonia pronunciando un discorso sottolineando come "la loro scelta [della Divisione Acqui] consapevole fu il primo atto della Resistenza, di un'Italia libera dal fascismo"[64].
- Filatelia: Monumento ai caduti, Eccidio della Divisione Acqui.[65]
- Nel 2005 è stata trasmessa su Rai Uno una serie televisiva sull'eccidio intitolata Cefalonia, con la regia di Riccardo Milani e la colonna sonora di Ennio Morricone.
- Il 25 aprile 2007 il Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano, dicendo di "ispirarsi al suo predecessore" Ciampi, ha voluto festeggiare il 62º anniversario della Liberazione anche a Cefalonia: si è trattato, oltre che di un omaggio dal notevole valore simbolico, anche della prima volta in assoluto che la ricorrenza del 25 aprile è stata festeggiata da un Presidente della Repubblica in carica al di fuori dei confini nazionali.
- La serie La Storia siamo noi ha dedicato una puntata ai fatti di Cefalonia intitolata Cefalonia 1943 - La strage nazista della divisione Acqui[66].
- Nel 2014 è stato realizzato il documentario Tornando a casa, per la regia di Claudio Costa che ha per protagonista Bruno Bertoldi reduce della Divisione Acqui e autista personale del Generale di brigata Luigi Gherzi. Bertoldi riuscì a fuggire miracolosamente e a nascondersi nei tragici momenti della resa dei conti tra italiani e tedeschi. Secondo la testimonianza di Bertoldi il generale Gandin non fece mai un referendum tra la truppa e Apollonio collaborò con i tedeschi dopo la fine dei combattimenti per evitare ritorsioni.
- Dal 2012, in Abruzzo, il Circolo Filatelico Numismatico Rosetano e l’Associazione Culturale Terra e Mare, con il patrocinio dell’amministrazione comunale di Roseto degli Abruzzi (Teramo), organizza la manifestazione-ricordo " Per non dimenticare", moderata dal giornalista Walter De Berardinis.
- Nel 2017 è stato realizzato il documentario Uno scalpellino a Cefalonia per la regia di Claudio Costa che ha per protagonista Alberto Di Bernardini reduce della Divisione Acqui. Di Bernardini rimasto incolume durante gli scontri con i tedeschi dopo l'8 settembre fu portato in Jugoslavia dai tedeschi e utilizzato come lavorante insieme ad altri commilitoni. L'avanzata dei russi gli permise di fuggire e tornare poi a guerra finita a Marino sua città natale.
- Nel 2017 il reduce della Divisione Acqui Michele Zucchi ha narrato la sua esperienza a Cefalonia in un documentario dal titolo "La divisione Acqui a Cefalonia" diretto da Claudio Costa. Zucchi che sopravvisse ai combattimenti con i tedeschi, venne fatto prigioniero e si salvò anche dal naufragio di una delle navi che trasportavano i prigionieri italiani. Successivamente fu portato in Russia dai tedeschi come lavorante. Poi venne liberato dai russi a fine guerra.
- Il 28 ottobre 2018 - in occasione della Festa Nazionale ellenica del "Giorno del NO", ovvero del no pronunciato dal Primo Ministro ellenico Metaxàs alla richiesta di Mussolini di attraversare con le sue truppe il confine tra Albania e Grecia e che segnò l'inizio della Campagna di Grecia e la conseguente occupazione italiana - il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella, su invito del suo omologo ellenico, Prokòpios Pavlòpoulos, commemora il 75º Anniversario dell'eccidio della Divisisione Acqui. Nella dichiarazione rilasciata ai giornalisti presenti il Presidente Mattarella ha sottolineato che: "La nuova Grecia e la nuova Italia sono nate dalla resistenza al nazifascismo e hanno ripudiato la guerra. Dopo le terribili guerre del secolo scorso che hanno dilaniato l'Europa, l'Unione europea ha avviato un percorso di mettere il futuro in comune per i popoli europei, assicurando pace, amicizia e collaborazione."
Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]
Libri[modifica | modifica wikitesto]
- Filippo Boni, L’ultimo sopravvissuto di Cefalonia. Dai lager nazisti ai gulag sovietici: l’incredibile storia di Bruno Bertoldi, un eroe qualunque, Milano, Longanesi, 2019.
- Elena Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l'eccidio, il mito, Bologna, il Mulino, 2016, ISBN 978-88-15-26515-9.
- Mario Avagliano e Marco Palmieri, Gli internati militari italiani: diari e lettere dai lager nazisti, 1943-1945, Einaudi, 2009, ISBN 978-88-06-19894-7.
- Mariano Barletta, Sopravvissuto a Cefalonia, Mursia, 2003, ISBN 978-88-425-3143-2.
- Alfio Caruso, Italiani dovete morire, Longanesi, 2000, ISBN 978-88-304-1843-1.
- Bruna De Paula e Paolo Paoletti, Itinerario della Memoria, Atripalda (AV), Mephite, 2011 ISBN 978-88-6320-091-1
- Massimo Filippini, La vera storia dell'eccidio di Cefalonia, 2ª ed., Copiano, Grafica MA.RO, 2001 (Cap.1) - 2002 (Cap.2). (1ª ed.: CDL, Casteggio, 1998)
- Massimo Filippini, La tragedia di Cefalonia. Una verità scomoda, Roma, IBN, 2004, ISBN 978-88-7565-015-5.
- Massimo Filippini, I caduti di Cefalonia: fine di un mito, Roma, IBN, 2006, ISBN 978-88-7565-027-8.
- Romualdo Formato, L'eccidio di Cefalonia, De Luigi, 1946. riedito da Mursia, Milano ISBN 978-88-425-3435-8
- Gian Carlo Fusco, Guerra d'Albania, Palermo, Sellerio, 2001, ISBN 978-88-389-1700-4.
- Luigi Ghilardini, I martiri di Cefalonia, Edizioni 3, 1952.
- Frank Meyer Hermann, Il massacro di Cefalonia e la 1º divisione da montagna tedesca, Udine, Gaspari, 2013, p. 492, ISBN 978-88-7541-296-8.
- Gianfranco Ianni, Rapporto Cefalonia, Solfanelli, 2011, ISBN 978-88-7497-727-7.
- Pietro Giovanni Liuzzi, Leali ragazzi del Mediterraneo, Cefalonia, settembre 1943: viaggio nella memoria, Taranto, Edit@, 2006, ISBN 978-88-97216-06-3.
- Giorgio Rochat, La Divisione Acqui a Cefalonia: settembre 1943, a cura di Marcello Venturi, Milano, Mursia, 1993, ISBN 978-88-425-1498-5.
- Mino Rollo, I fiori di Cefalonia, Galatina, Panico, 2005, ISBN 88-88156-30-5.
- Gian Enrico Rusconi, Cefalonia, Einaudi, 2004.
- Angelo Scalvini, Prigioniero a Cefalonia anno=2001, Mursia, ISBN 978-88-425-2920-0.
- Gerhard Schreiber, La vendetta tedesca 1943-1945. Le rappresaglie naziste in Italia, Milano, Mondadori, 2000, ISBN 88-04-42515-6.
- Marcello Venturi, Bandiera bianca a Cefalonia, Feltrinelli, 1963.
- Alessandro Actis e Battista Actis, Cefalonia: l'ultima testimonianza, Torino, Minerva Medica, 2004.
- (DE) Christoph Schminck-Gustavus: Kephallonia 1943-2003. Donat, 2004, ISBN 3-934836-66-6
- (DE) Roland Kaltenegger, Die deutsche Gebirgstruppe 1935-1945. Universitas Verlag, ISBN 3-8004-1196-2
- (DE) Hermann Frank Meyer, Blutiges Edelweiß. Die 1. Gebirgs-Division im Zweiten Weltkrieg , Koch, Neff & Volckmar, 2008, ISBN 3-86153-447-9. (Online)
- (DE) Hans Peter Eisenbach, Fronteinsätze eines Stuka-Fliegers. Mittelmeer 1943, ISBN 978-3-938208-96-0, Helios-Verlag Aachen.(In dem Buch wird minutiös der Stuka-Einsatz der I. Gruppe StG 3 gegen Kefalonia geschildert).
- Luigi Ballerini, Cefalonia, Milano, Mondadori 2005, poi Cefalonia 1943-2001, Venezia, Marsilio 2013 (engl. translation Cephalonia, 2016).
Audiovisivi[modifica | modifica wikitesto]
- Amos Pampaloni, Renzo Apollonio e Gennaro Tomasi, Tragico e glorioso 1943, Rai - RaiStoria - ReStore, 1973, a 00:20.
- Cefalonia: non immaginavo che ci ammazzassero, documentario radiofonico di Mauro De Cillis, Massimo Forleo, Emilia Morelli e Francesca Vitale (Rai Radio Uno), presentato al Prix Italia 2006 e poi compreso nell'antologia "Cento voci dall'Italia" (Rai Teche, 2011).
- Tornando a casa, documentario del 2014 con Bruno Bertoldi reduce della Divisione Acqui. - IMDB
- Uno scalpellino a Cefalonia, documentario del 2017 con Alberto Di Bernardini reduce della Divisione Acqui. - IMDB
- La Divisione Acqui a Cefalonia del 2017 con Michele Zucchi reduce della Divisione Acqui. - [1]
Filmografia
- Il mandolino del capitano Corelli (Captain Corelli's Mandolin) è un film del 2001 diretto da John Madden, ambientato dal 1941 al 1953 a Cefalonia, tratto dall'omonimo romanzo di Louis de Bernières.
- Cefalonia (miniserie televisiva) è un miniserie televisiva del 2005 diretta da Riccardo Milani con musiche di Ennio Morricone
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