La poesia, scriveva Giovanni Raboni, non è un’astrazione ineffabile e inservibile, ma un bene reale, concretamente fruibile e godibile: «il problema è cosa si possa e si debba fare […] per rimpiazzare il fantasma della poesia con la poesia in carne e ossa».
E a questo «problema» da anni prova quotidianamente a rispondere Nicola Crocetti con il suo impegno di editore e di traduttore. Il suo nome si lega ormai istintivamente alla rivista Poesia, da lui fondata nel 1988, e alle tante, mirabili traduzioni di autori greci contemporanei (Kavafis, Seferis, Ritsos), a cui si aggiunge in questi giorni la sua ultima impresa: la prima traduzione integrale in italiano dell’Odissea di Nikos Kazantzakis, il poema di 33.333 versi in cui il poeta cretese immaginò il seguito dell’Odissea di Omero, immergendola nelle atmosfere filosofiche e spirituali del Novecento.
La prima domanda che vorrei porle è: perché l’Odissea di Kazantzakis? È vero, il nostro Paese non disponeva ancora di una traduzione del poema, ma ci sono altre ragioni che l’hanno spinta, in prima persona, ad affrontare questo arduo e lungo viaggio di traduzione?
Mi imbattei la prima volta nell’Odissea di Kazantzakis a poco più di vent’anni e rimasi folgorato. Poi, così come si prova il desiderio di condividere con gli altri le cose che ci piacciono e che amiamo, provai immediatamente il desiderio di tradurlo. Feci anche qualche maldestro tentativo, ma non ero ancora attrezzato. Però quel desiderio mi ha accompagnato per tutta la vita. Nel 2013, esaurita una lunga e pressante serie di altri impegni di lavoro, mi ci sono dedicato. Ci sono voluti sette anni, ma facendo anche molto altro nel contempo. Un’altra ragione importante è che considero Kazantzakis uno dei giganti della letteratura neogreca, assieme a un altro grande poeta, Ghiannis Ritsos, del quale ho tradotto sessanta raccolte delle 150 che ha scritto. Di Kazantzakis ho tradotto quattro romanzi, ma lui considerava l’Odissea l’unica opera a cui voleva fosse legato il suo nome. Perciò era indispensabile tradurla.
Lei è uno dei maggiori divulgatori, traghettatori di poesia contemporanea; per anni ha tradotto instancabilmente, e ci ha così permesso di conoscere, i più importanti poeti e scrittori greci contemporanei. Ma suoi libri, di prosa o di poesia, romanzi o sillogi, non ne se ne trovano in giro. Allora terrei a chiederle, secondo la sua esperienza, quanto l’atto del tradurre replica quello dello scrivere; vorrei chiederle se prestare la propria vita alla traduzione significhi, in fondo, prestarla anche alla scrittura.
Io non ho mai scritto un libro mio, in versi o in prosa. Certo, la traduzione di autori importanti diventa per chi la fa un surrogato della propria scrittura. Si presta la voce a chi non può averla nella nostra lingua. È un’operazione molto importante, lo sappiamo bene, che comporta una grande responsabilità e richiede una collaudata esperienza, anche se per ragioni economiche alcuni editori si affidano spesso a traduttori principianti o a dilettanti. Io ho tradotto più di centomila versi dal greco (ma anche da qualche altra lingua) e decine di migliaia di pagine di prosa. Il che mi ha fornito una robusta attrezzatura per affrontare la traduzione di questo difficilissimo poema. Credo che dedicare la propria vita alla traduzione sia, al pari di chi si dedica alla poesia o alla prosa, una sorta di missione, che richiede, come la poesia, una passione totalizzante. Il traduttore, come il poeta, cerca disperatamente la parola “esatta”.
Kazantzakis scrive la sua Odissea tra il 1925 e il 1938. Il suo non è un semplice seguito dell’Odissea omerica, il poema sintetizza le tante stagioni della vita che aveva attraversato, le tante filosofie e fedi che aveva sperimentato. Perché sarebbe necessario ritrovare oggi quelle pagine, in che modo potrebbero aiutarci a capire la realtà che abbiamo attorno? Quando uscì il libro fu, per motivi disparati, lungamente frainteso; quindi in realtà mi domando anche se non sia questo, il nostro, il tempo giusto, l’epoca giusta, per leggere quei versi.
Per Kazantzakis l’Odissea era la summa delle sue esperienze di vita, dei suoi studi filosofici, dei suoi numerosi viaggi in giro per il mondo. Cominciò a scriverla poco dopo la fine della Prima guerra mondiale, e la pubblicò alla vigilia della Seconda: come si dice in greco per indicare l’assenza di una via d’uscita, “dietro, un fiume impetuoso, davanti, il baratro”. E affidò a Ulisse, il suo avatar, il compito di risolvere la questione. Credo anch’io che questo nostro tempo sia forse il più indicato per un’opera come questa, che nella sua complessità può aiutarci anche a comprendere la realtà attuale. Basterebbe leggere il brano in cui il poeta si astrae dal suo racconto e fa un appello alla Virtù (XXII, 1-29) perché impedisca che Ulisse precipiti nell’Ade. Un appello simile andrebbe fatto nostro oggi per scongiurare che anche il nostro Paese precipiti nel baratro, sull’orlo del quale temo si trovi.
«Virtù dal sonno leggero, preziosa figlia dell’uomo,/come sei felice quando sola, mordendoti le labbra,/ perseguitata e povera, sei confinata nel deserto! …»
Quando il poema uscì, la Grecia era ancora un Paese culturalmente e politicamente sottosviluppato, legato a canoni etici ed estetici ottocenteschi, in cui le poche persone istruite parlavano e scrivevano una lingua dotta (la katharèvusa) incomprensibile al popolo, che parlava invece la dimotikì, la lingua popolare, per la quale Kazantzakis aveva una passione che sfiorava l’ossessione. Poiché lui era avanti di decenni rispetto al suo tempo, non poteva essere compreso né accettato, perciò fu osteggiato in ogni modo. Non solo fu costretto a morire in esilio, in Francia, ma si impedì che fosse sepolto in un cimitero cristiano con l’accusa – falsa e speciosa – che era un comunista. Sulla sua tomba, sopra le mura della fortezza Martinengo, a Iraklio, le poche parole dell’epitaffio da lui dettato: «Non spero niente. Non temo niente. Sono libero».
Qual era il rapporto tra Kazantzakis e i poemi omerici? È un particolare della vita dell’autore che fa nascere in me questa curiosità. Leggendo l'avventurosa biografia che lei traccia nell’introduzione, ci si accorge che le traduzioni che Kazantzakis fa dei poemi omerici non precedono la composizione dell’Odissea, ma sono successive: l’Iliade dopo gli anni della Seconda Guerra Mondiale; l’Odissea dopo gli anni Cinquanta. Mi incuriosiva molto questo ritornare su Omero dopo aver cercato di proseguirlo. Fare forse un passo indietro, dopo aver cercato il salto.
In effetti uno si aspetterebbe il contrario. Kazantzakis aveva studiato Omero per tutta la vita, ma la sua priorità era raccontare l’ultimo viaggio di Ulisse. Un viaggio, secondo la raccomandazione di Dante – la cui Commedia egli aveva tradotto – alla ricerca della virtù e della conoscenza. Vi dedicò tredici anni della sua vita, e solo dopo, come se avesse adempiuto a una missione, si dedicò alla traduzione dei poemi omerici.
Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate lungo la sua traduzione dell’Odissea di Kazantzakis?
Quella dell’Odissea è una lingua molto scabra, irta di arcaismi e di molte migliaia di lemmi non registrati su nessun dizionario. I lemmi dei pastori, dei contadini, dei pescatori, dei marinai, custoditi nei villaggi di Creta e delle isole dell’Egeo, che Kazantzakis batté per lunghi anni, trascrivendoli direttamente dalla bocca della gente del popolo, e che erano destinati a scomparire con l’avvento della civiltà. Il suo intento era quello di compilare un dizionario di queste parole moriture, ma poiché non vi riuscì le salvò inserendole nel suo poema. Così l’Odissea è anche un’arca di Noè linguistica, con migliaia di parole salvate dall’estinzione. La ricerca di questi lemmi è stata per me la difficoltà maggiore, visto che nessuno in Grecia si è preso la briga di fare un’edizione annotata del poema, cosa che peraltro ne ha reso difficile la fruizione da parte degli stessi lettori greci.
Ha mai pensato di abbandonare il lavoro?
La mia scelta di fare una versione metrica rispettando la scansione originale del poema ha comportato il sacrificio di alcuni dei numerosi aggettivi di Kazantzakis e ha reso il lavoro di traduzione più arduo che se fosse stato in prosa. Ma non ho mai pensato di abbandonare l’impresa. E per superare le difficoltà causate dalle parole “difficili” ho fatto mia la sua lezione: ho battuto a lungo gli intricati sentieri del web alla ricerca dei lemmi non registrati sui vocabolari. Li ho trovati tutti, e ho arricchito immensamente il mio greco.
Vorrei farle ancora due domande. La prima è chiederle una parola. Dal vocabolario sterminato dell’Odissea, tra neologismi e parole arcane, potrebbe suggerirci una parola che la affascina, che porta con sé.
La prima che mi viene in mente è uno degli oltre cento epiteti (103 per la precisione), che Kazantzakis ha forgiato per caratterizzare il suo Ulisse: l’Uomo dai mille tormenti. Ma una parola sola mi pare troppo poco per un poema che ne conta ben 320.000. Perciò ne cito qualche altra, sempre riferita a Ulisse: l’Inaddolcibile, Mente di avvoltoio, il Conoscicuori, l’Assediato dalle ombre, lo Schernitore del cielo. E già che ci siamo, qualche epiteto di Elena: Che ride come un mandorlo, Che ha la bocca come un anello d’oro, Che risplende come la luna, Che parla come un fiore coperto di rugiada...
La seconda, e ultima: e adesso? Dopo aver tradotto l’Odissea di Kazantzakis, ha già nuovi progetti di traduzione o di studio?
La letteratura neogreca ha ancora molti “tesori sepolti”, che aspettano giovani archeologi disposti a scavare per portarli alla luce. Per quanto mi riguarda, c’è un altro poeta che io amo e che è ancora quasi del tutto sconosciuto in Italia, Kostìs Palamàs, tra l’altro un mio concittadino essendo nato a Patrasso. C’è un suo poema, bello quanto difficile, Il dodecalogo dello zingaro, che mi aspetta.
di Marco Marino
-Nikos Kazantzakis, Odissea, trad. Nicola Crocetti, Crocetti Editore, Milano 2020, pp. 840.
Immagine: Barca giocattolo con bandiera della Grecia nel mare estivo. Crediti: Sergii Kovalov / Shutterstock.com
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