Τρίτη 2 Ιανουαρίου 2024

La fortuna di Kavafis in Montale

 


Molteplici sono le ragioni che rendono estremamente interessante uno studio parallelo della poesia di Kavafis e Montale.

In apparenza questi due poeti sembrano appartenere a due mondi distanti non solo da un punto di vista geografico, ma anche – e soprattutto – culturale. Eppure, la critica (cfr. in particolare Cristiano Luciani, Montale, Kavafis e la Grecia moderna, Roma 2006) ha avuto modo di studiare la portata ed il significato di questo rapporto trovando nessi interessanti e degni di attenzione.
L’analisi della fortuna di Kavafis in Montale, oltre a rappresentare un vero e proprio capitolo della ricezione del testo del poeta alessandrino in Italia, è particolarmente significativa anche nella misura in cui può contribuire ad arricchire il ritratto del poeta genovese. Ciò che di Kavafis doveva colpire  Montale, infatti, altro non era che, per così dire, un sentire comune, una visione del mondo condivisa con il poeta greco. Diversi letterati italiani subirono in qualche modo il fascino della poesia di Kavafis (Ungaretti, Marinetti, Giudici, Caproni, Moravia e altri), ma Montale fu senza dubbio quello che dedicò al poeta greco maggiore attenzione. L’interesse montaliano per Kavafis si concretizza in una serie  di articoli apparsi sul Corriere della Sera a partire dal 1955. Il primo di questi (13 aprile 1955) Un poeta alessandrino, che è anteriore alla pubblicazione della prima edizione italiana integrale delle 154 poesie ufficiali (F. Maria Pontani, Costantino Kavafis, Poesie, Milano 1961), dopo una breve presentazione dei dati biografici essenziali del poeta greco presenta ai lettori un esame critico di Kavafis. In primo luogo Montale sottolinea come la fortuna e la risonanza europea del poeta greco sia in contrasto con i dati biografici: una vita lontana dai salotti letterari greci, ed un modo di fare poesia estraneo all’ufficialità di altri poeti greci contemporanei (Palamas e Sikelianos). Proprio in questo aspetto sta il paradosso: la Grecia aveva ben altri poeti blasonati da esportare, eppure, per una strano gioco del destino, proprio l’autore più schivo e meno nazionalista è riuscito a conquistarsi l’ammirazione del pubblico colto europeo.
Secondariamente, Montale coglie la novità rappresentata da Kavafis nel panorama letterario europeo in questi termini: “A una prima occhiata Kavafis sembra autore di poemi conviviali come ne scrissero Pascoli e Rilke: poemetti d’intonazione neoclassica, e sia pure con sentimento moderno. Ma le somiglianze si fermano all’esteriorità perché Kavafis è un vero alessandrino nello spirito e nella carne, del tutto alieno da quei ripensamenti umanistici che sono sempre alle radici di ogni classicismo autentico”.
Il giudizio montaliano sembra individuare una decisa corrispondenza fra poetica e biografia del poeta, dal momento che in Kavafis la rievocazione dell’antico mondo greco ellenistico ed imperiale non sarebbe un semplice esercizio letterario, ma si configurerebbe come un vero e proprio modo di vivere e di sentire la vita. Sfortunatamente – e di ciò era ben consapevole Montale stesso – il giudizio e l’apprezzamento montaliano di Kavafis era in una certa misura limitato dalla lettura in traduzione. Malgrado questo limite, quanto Montale sostiene nell’articolo è, in una certa misura, confermato proprio dalla lingua usata dal poeta alessandrino: da inizi classicistici (lingua Katharèvussa) si passa ad un impasto linguistico che fonde nella medesima poesia termini classici, bizantini e propri della lingua del popolo (dhimotikì). Nel far questo si crea una complessa serie di corrispondenze che non sono soltanto di natura linguistica, ma anche – e soprattutto – culturale.
In altri termini, attraverso l’indiscutibile continuità linguistica rivive la Grecia intesa non come pezzo da museo, ma come civiltà in continua evoluzione e capace ancora di dare il proprio contributo alla civiltà europea. L’adesione di Montale nei confronti del messaggio poetico ed umano di Kavafis sembra corrispondere proprio al rapporto del poeta genovese con la Grecia. Un rapporto ed una serie di impressioni veloci che scaturirono durante un soggiorno in Grecia del 1962 e che furono fissate per sempre nelle pagine di Fuori di casa (raccolta di racconti di viaggio edita per la prima volta nel 1969). Alla fine di Sulla via sacra (1962) Montale afferma: ” è un errore venire qui con l’animo di chi entra in un museo. Bisognerebbe diradare la cortina affascinante, e talvolta paurosa, delle immagini che si vedono, delle forme che si toccano, per entrare nel vivo di questa Grecia d’oggi, per conoscere gli uomini, per apprendere com’essi vivano, che cosa possano ancora darci e che cosa possiamo apprendere da loro. Per conoscere, insomma, se c’è una Grecia viva accanto alla terra dei morti che si può studiare e amare stando chiusi in una biblioteca”.
Solo per questa pagina Montale avrebbe meritato una laurea honoris causa in letteratura greca, dal momento che ha saputo cogliere (forse proprio perché non era un accademico) ciò che molti grecisti di professione non hanno saputo cogliere: la continuità della cultura greca nei secoli.
Il secondo articolo (Un poeta greco) dedicato al poeta greco, pubblicato nel Corriere della sera del 5 giugno 1962,  è piuttosto importante per il fatto che esso è uscito un anno dopo la pubblicazione integrale del corpus del poeta greco in lingua italiana (cfr. F. M. Pontani, Costantino Kavafis, Poesie, Milano 1961).
L’articolo colpisce, prima di tutto, per la conoscenza accurata dei contributi critici dedicati alla figura del poeta alessandrino (viene citata l’opera del Pieridis [M. Pieridis, Ο βίος και το έργο του Κωνστ. Καβάφη, Atene 1948] e di Papoutsakis traduttore del corpus del poeta greco in lingua francese [C. P. Cavafy, Poèmes, Paris 1958]). Anche nel nuovo scritto viene tratteggiata la biografia di Kavafis, sottolineando il fatto che la fortuna di questo “alessandrino” è in netto contrasto con l’influsso effettivo esercitato dal poeta sulle lettere greche fino al momento della sua morte. L’elemento che, secondo Montale, rende Kavafis un autore significativo nel contesto del panorama letterario greco ed europeo è costituto, probabilmente, dal fatto che in Kavafis poesia e vita rappresentano un’unità indissolubile. In sostanza – e questo è un aspetto che Montale aveva già evidenziato nel precedente articolo – i componimenti del poeta greco non sono il risultato di un classicismo da salotto, ma nascono in seguito ad una rievocazione di esperienze realmente vissute nella carne e nell’anima: “Non so nulla di Alessandria, né tanto meno dell’Alessandria di oggi, duramente “scremata” dalle leggi nasseriane, ma chi abbia letto Justine di Darrel e alcune pagine di E. M. Forster potrà comprendere come la vita e la poesia di Kavafis siano inseparabili dal fondo e dal sottofondo di un’Alessandria che ai giorni nostri dev’essere assai diversa”.
Si legga anche questa considerazione montaliana in merito al rapporto fra erudizione e biografia del poeta: ” Del periodo che interessa la sua poesia (tutta l’epoca ellenistica – 200 a. C. – 655 d. C. – e tutta l’epoca bizantina – 842-1355 d. C..) egli aveva una larghissima conoscenza, tanto che i professori di storia lo evitavano per non cadere in qualche domanda trabocchetto (era una delle sue tante civetterie). Suppongo però che la sua erudizione fosse quella dell’artista che prende il suo bene dove lo trova e se ne infischia dell’esattezza storica; l’erudizione di un moderno esteta, insomma, qualcuno ha detto di un parnassiano: ma come conciliare col gelo del Parnasse il tragicomico sense of humour di molte poesie kavafisiane?”

Senza dubbio, però, una delle osservazioni montaliane più interessanti riguarda il problema della lingua usata dal poeta: ” E’ sorprendente notare che Kavafis, perfetto conoscitore della lingua inglese, scrisse in una lingua che dovette riapprendere all’età di nove anni benché fosse la sua lingua materna. Il neogreco era trent’anni fa (ed è ancora) in una fase assai fluida e le ricchezze della lingua parevano inesauribili. Da una parte la lingua illustre (quella che ancora usano i giornali), dall’altra la lingua demotica, la lingua veramente parlata. Kavafis, a quanto pare, attinse liberamente alle due fonti e creò un linguaggio tutto suo.”
Già Ungaretti (che conobbe personalmente Kavafis), noto concittadino di Kavafis, aveva colto il rapporto indissolubile che lega la poesia di Kavafis e la lingua greca: “Cavafy aveva venticinque anni almeno più del più vecchio di noi che non ne aveva più di diciotto. Mi furono d’insegnamento inuguagliabile le conversazioni con lui, per il quale non aveva segreti la sua lingua nel trimillenario mutarsi e permanere” Cfr. G. Ungaretti, Vita d’un uomo, Saggi e interventi, Milano 1974, p. 666.

In effetti, il problema linguistico diventa particolarmente significativo in un poeta che, pur padroneggiando con sicurezza e competenza la lingua inglese, scelse di comporre le proprie liriche usando un idioma (il greco) ben più complesso da un punto di vista grammaticale e sintattico. Pensandoci bene, però, si capisce bene  la ragione per cui venne scelto il greco: rimarcare la propria identità greca nella città (Alessandria) che un tempo fu la seconda Atene, la capitale della cultura ellenistica e sede della più prestigiosa biblioteca del mondo antico (Per approfondire cfr. P. M. Minucci, Costantino Kavafis, Firenze 1979, pp. 45 segg. ; M. Peri, Quattro saggi per Kavafis, Vita e Pensiero, Milano 1978).

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