In tutta la
sua opera, partendo da “Il poverello di Cristo”, passando per l’”Ascetica”,
arrivando infine a “L’ultima tentazione di Cristo”, Nikos Kazantzakis ci
presenta non un Cristo di dolore, ma il dolore stesso, la felicità che è
possibile solo attraverso “il Ciclo che non ha mai termine
di Iannozzi Giuseppe
21 giugno 2010
Si fa un
gran parlare di Michel Houellebecq definendolo il nuovo Céline francese. Forse
è vero: ma al momento, non credo che Houellebecq abbia raggiunto la perfezione
nichilista di Louis-Ferdinand Céline, e non è detto che in futuro ne sia
capace. Mi pare invece assodato che Houellebecq, a differenza di tanti
contemporanei francesi, ha saputo portare un vento di novità all’interno della
letteratura mondiale, un vento anarcoide che par quasi dichiarare “io non credo
in niente, non ho paura di niente, quindi sono un uomo libero.” Seppur con
mezzi e forme diverse, questa bandiera è ostaggio anche del più hollywoodiano
Chuck Palahniuk che, almeno, con il suo migliore lavoro, “Fight Club”, ha
saputo risvegliare le coscienze intorpidite della letteratura americana.
Tornando a Céline, è utile ricordare la sua bandiera, determinata in una declinazione scomposta, ma
pur sempre anarchica, forse completamente nichilista: “E’ forse questo che si cerca
nella vita, nient’altro che questo, la pena più grande per diventare se stessi
prima di morire…” Céline era medico, intellettuale, un po’ curvo come Giacomo
Leopardi, gli occhi spiritati e una volontà quasi incrollabile nel tentare di
guarire (di ammalare) l’umanità che non la smetteva di vivere, di viversi
addosso. Palahniuk e Houellebecq sono oggi i portabandiera di questa filosofia
di vita, ma è difficile credergli completamente: si sarebbe tentati di credere
almeno in Houellebecq, se non altro perché è lontano dai cliché hollywoodiani;
ma è solo una tentazione, forte, ma nulla di più.
Chuck
Palahniuk oggi è al centro di molta attenzione, giustificata ma anche
ingiustificata: nella verve di questo americano tutto bicipiti e cervello è
possibile riscontrare temi cari al P.K. Dick di Ubik ma anche temi più
profondamente sociali, quelli che hanno fatto la fortuna di Kurt Vonnegut.
Eppure né Palahniuk né Houllebecq sono la risposta a una narrativa migliore,
lontana dalla serialità a cui siamo stati abituati da troppi editori e autori.
Entrambi investono se stessi tentando di essere un po’ come Céline, ma il
risultato finale è una Ninna Nanna stonata che ricorda vagamente la pazzia
lisergica di Oliver Stone, quella presente in Natural Born Killers; ciò vale
almeno per l’autore di Fight Club, mentre Houellebecq riesce invece ad essere
più convincente rispetto al suo collega americano.
Questa
introduzione, molto schematica, era solo per introdurre Nikos Kazantzakis.
Nikos Kazantzakis, nato a Candia (Creta) nel 1883, è morto a Friburgo nel 1957.
Allievo a Paris di H. Bergson, Kazantzakis subì, mai passivamente, le influenze
di filosofi di grosso calibro ma soprattutto di Nietzsche. Attratto anche
dall’estetismo di Gabriele D’Annunzio, e successivamente dal buddhismo e del
materialismo storico, al centro della sua multiforme opera è giusto ricordare
almeno il poema Odissea del 1938: il motivo precipuo dell’Odissea, raccontata
da Kazantzakis, è un infinito viaggio dell’uomo verso un tentativo di
compiutezza, il cui filo d’Arianna delle esperienze metatemporali e simboliche
è in mano al protagonista-uomo che incontra Don Quijote, Buddha e Confucio. Ma
Nikos Kazantzakis non ha visto fortuna nell’immediato dopoguerra con i suoi
romanzi, romanzi che oggi dovrebbero far impallidire lo stesso Salman Rushdie tanta
è la forza espressiva e nichilista dell’autore: Zorba il greco (1946), Cristo
di nuovo in croce (1954), Il poverello di Dio (1956), solo per citare i suoi
lavori più famosi, oggi appartengono alla storia della letteratura mondiale. Ma
è “L’ultima tentazione di Cristo” a far la fama e, purtroppo, la sfortuna di
Nikos. Nel 1954 il Pontefice della Chiesa Cattolica mise “L’ultima tentazione
di Cristo” nell’Index dei Libri Vietati; in risposta soltanto una frase
telegrafata da Kazantzakis, ripresa dall’apologetico Tertulliano, “Ad tuum,
Domine, tribunal appello.” Come dice Luciano Canfora, “la storia del libro è
soprattutto la storia della sua distruzione.” In questo senso si possono
leggere i divieti o i rifiuti di pubblicazione dei suoi scritti, il fatto che
per due voti Nikos non entrò nell’Accademia Greca, la perdita del premio Nobel
nel ’56, e il gesto della chiesa ortodossa – sintomo di odio, di stupidità -,
che non ha permesso l’esposizione della salma dell’autore ad Atene. L’autore
greco dedicò la vita intera alla scrittura: amava l’Italia e Dante oltre al
D’Annunzio: nel 1932 Nikos traduce “La Divina Commedia” in soli quarantacinque
giorni nella metrica greca della terza rima. Molto attaccato ad Assisi, alla
figura di San Francesco, Nikos non dimenticò di approfondire né Machiavelli né
Pirandello. “Veniamo da un abisso oscuro; ritorniamo in un abisso oscuro. Lo
spazio luminoso che intercorre tra di loro lo chiamiamo vita. Appena nati
inizia il nostro ritorno; contemporaneamente l’inizio e il ritorno; ogni attimo
moriamo. Per questo molti hanno protestato: lo Scopo della vita è la morte”,
così Kazantzakis apre la sua “Ascetica” (Esercizio Mistico), che è la summa del
pensiero filosofico del grande autore greco. E poi il grido di Dio: “Io,
l’Urlo, sono il tuo Signore, il tuo Dio! Non sono un rifugio. Non sono una
Casa, neanche la speranza. Non sono Padre, né Figlio, né Spirito. Sono il tuo
Generale! Tu non sei uno schiavo, né un giocattolo nelle mie mani. Non sei mio
amico, non sei mio figlio. Sei il mio compagno nella battaglia. Difendere
coraggiosamente gli stretti che ti ho affidato; non tradirli! Hai il dovere e
le possibilità per diventare un eroe nel tuo ambito. Amare il pericolo. Qual è
la cosa più difficile? Questa pretendo! Qual è la strada da seguire? La salita
più ardua. Questa strada ho intrapreso anch’io; seguimi! Impara ad obbedire.
Solo quello che obbedisce ad un ritmo superiore a se stesso è libero. Impara a
comandare. Solo colui che sa comandare è il mio rappresentante su questa terra.
Amare la responsabilità. Dire: io, soltanto io ho il dovere di salvare il
mondo. Se non si salverà sarà soltanto colpa mia.” L’influenza di Nietzsche è
fortissima in queste parole, ed è il motivo per cui oggi ancora, ingiustamente
e proditoriamente, l’opera di Kazantzakis è quasi invisibile.
“L’ultima
tentazione di Cristo” – che ha anche ispirato un buon film di Martin Scorsese
del 1988 accompagnato dalle musiche straordinarie di Peter Gabriel -, che io
sappia è stato pubblicato l’ultima volta in Italia nel 1988 per i tipi
Frassinelli.
Quale
l’innovazione filosofica in Nikos Kazantzakis? Nessuna, ma non s’intenda che
sia poco o niente, è invece vero che è troppa l’invenzione. Si tenga presente
che l’autore quando venne seppellito su una montagna, a Creta, sulla sua
epigrafe, per volontà espressa dallo stesso Nikos, vennero incise tre frasi il
cui contenuto è politico, ontologico, teologico e filosofico: “non temo niente,
non spero niente, sono libero.” Il vaso di Pandora, con la tumulazione di
Nikos, è stato aperto, ancora una volta, definitivamente perché, sì, è vero,
tutto s’è compiuto. Ma è solo l’inizio, un inizio che è ideale continuum per lo
Sciascia svizzero, Friedrich Dürrenmatt. In Dürrenmatt la struttura narrativa
non finisce negando se stessa, piuttosto mette a nudo le mostruosità di cui è
capace l’uomo. Emblematico, e profondamente veritiero lo Sciascia svizzero:
“Non mi riferisco solo alla circostanza che tutti i vostri criminali trovano la
punizione che si meritano. Perché questa bella favola è senza dubbio moralmente
necessaria. Appartiene alle menzogne ormai consacrate, come pure il pio detto
che il delitto non paga – mentre basta semplicemente considerare la società
umana per capire dove stia la verità a questo proposito – ma lasciamo correre
tutto questo, se non altro per un principio puramente commerciale, dato che
ogni pubblico ed ogni contribuente ha diritto ai suoi eroi e al suo happy end,
e tanto noi della polizia quanto voi scrittori di mestiere siamo tenuti a
fornirlo nella stessa maniera. No, quel che mi irrita di più nei vostri romanzi
è l’intreccio. Qui l’inganno diventa troppo grosso e spudorato. Voi costruite
le vostre trame con logica; tutto accade come in una partita a scacchi, qui il
delinquente, là la vittima, qui il complice, e laggiù il profittatore; basta
che il detective conosca le regole e giochi la partita, ed ecco acciuffato il
criminale, aiutata la vittoria della giustizia. Questa finzione mi manda in
bestia.” Come Dürrenmatt, anche Kazantzakis nega l’happy end: non c’è alcuna mano
che ci venga tesa, solo la negazione domina su tutto, la negazione della
felicità, ma anche del dolore, della falsità e della verità. Il nichilismo –
ostentato con estrema padronanza conoscitiva dell’animo umano – operato da
Kazantzakis è “santo” in una soluzione dove morte e vita si equivalgono: “E
combattiamo tutti – piante, animali, uomini e idee – in questo breve frangente,
che è la nostra vita personale, per ordinare il Caos dentro di noi, per
quietare l’abisso, per rielaborare la totale oscurità che c’è nei nostri corpi,
rendendola luce.” Non è ammissione che la salvezza è a portata di mano,
piuttosto è la negazione totale assoluta che una salvezza possa esistere. La
luce di cui si fa portatore Kazantzakis è nicciana, una volontà di potenza che rifugge
la falsità delle illuminazioni: quando Nikos Kazantzakis introduce Dio, nel
Creato, è soprattutto la negazione che Dio ci salverà, e con le stesse parole
di Kazantzakis, “Noi salveremo Dio, combattendo, creando, trasformando la
materia in spirito. […] Ci dobbiamo salvare dalla salvezza e dai salvatori.” E’
il trionfo del materialismo, la morte è materia e come tale va trattata, al
pari della vita, che è anch’essa materia: “Il mio Dio non è onnipotente, lotta,
rischia ogni momento, freme, vacilla su ogni ente, grida. Incessantemente è
sconfitto e di nuovo si erge, sporco di sangue e di fango, e ricomincia la
lotta.” Inoltre, sempre l’autore greco afferma: “Sii dissidente, inquieto,
insoddisfatto… Quando un’abitudine degenera in conformismo, distruggila!” Ed
ancora: “L’essenza del nostro Dio è la LOTTA. In questa lotta si manifestano e
operano eternamente il dolore, la gioia e la speranza. Il salire e la guerra
controcorrente generano in noi il dolore. Ma il Dolore non è il monarca
assoluto. Ogni vittoria, ogni equilibrio è solamente un momento della scalata,
che riempie con gioia ogni ente vivente, che respira, cresce, si innamora e
genera. Ma all’interno della gioia e del dolore c’è la speranza eterna di
sfuggire alla sofferenza, di moltiplicare la felicità. E’ così che ricomincia
la salita, il dolore, rinasce la gioia e ricompare di nuovo la speranza. Il
Ciclo non ha mai termine.” In tutta la sua opera, partendo da “Il poverello di
Cristo”, passando per l’”Ascetica”, arrivando infine a “L’ultima tentazione di
Cristo”, Nikos Kazantzakis ci presenta non un Cristo di dolore, ma il dolore
stesso, la felicità che è possibile solo attraverso “il Ciclo che non ha mai
termine”: “Scosse la testa e bruscamente si ricordò dove si trovava, chi era e
perché soffriva. Una gioia selvaggia e indomabile si impadronì di lui. No, no,
non era un vigliacco, disertore, traditore. No, era inchiodato sulla croce, era
stato leale fino alla fine, aveva mantenuto la sua parole. Lo spazio di un
lampo, nell’attimo in cui aveva gridato: Eli! Eli! E in cui era svenuto, la
Tentazione si era impossessata di lui e l’aveva sviato. Menzogne le gioie, i
matrimoni, i figli: menzogne i vecchi decrepiti e avviliti che lo avevano
trattato da vigliacco, da disertore, da traditore; tutto ciò non era altro che
una visione suscitata dal Maligno! I suoi discepoli vivono e prosperano, hanno
preso le vie di terra e di mare e annunciano la Buona Novella. Tutto è avvenuto
come doveva, sia lodato Iddio! Levò un grido di trionfo: tutto s’è compiuto! E
fu come se dicesse: Tutto comincia.”
Dürrenmatt
mette a nudo la mostruosità dell’umano esistere, Nikos Kazantzakis spoglia la
nudità stessa dell’umano esistere: per entrambi, la giustizia umana non esiste.
In Dürrenmatt non si risolve mai niente: la giustizia non trionfa
attraverso l’uomo e il concetto che esso (l’uomo) ha di essa; in Kazantzakis la
giustizia terribile è “il Ciclo che non ha mai termine”, o, se si preferisce,
un “eterno” cercare un altro Egitto, ma sempre in Egitto si dovrà fuggire come
San Giuseppe. L’“eterno” è il nichilismo che spaventa, che fa orrore agli animi
deboli, inconsapevoli di se stessi. Chi oggi non teme l’“eterno” non temerà né
il dolore né la felicità, siano essi materia per la vita, per la morte.
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