Κυριακή 6 Σεπτεμβρίου 2020

Alle Thermopili

 Οδοιπορικό στις Θερμοπύλες, ακολουθώντας το μονοπάτι του Εφιάλτη στο  Καλλίδρομο Όρος (pics) - Ειδήσεις και νέα της Πελοποννήσου και όλης της  Ελλάδας

Pubblichiamo uno dei tre reportage di Matteo Nucci dalla Grecia (gli altri sono di prossima pubblicazione) usciti sul Venerdì, ringraziando autore e testata. 

L’autore sarà ospite oggi e domani al Festival della Mente di Sarzana, dove racconterà i luoghi narrati in questa serie.

TERMOPILI. Tutto ebbe inizio con un sogno che assomigliava al delirio, quel delirio che invade i cuori degli umani quando immaginano di poter superare i limiti della propria umanità. Sogno e delirio avevano preso Serse fin dal momento in cui era salito sul trono di suo padre Dario. Era il 486 e solo quattro anni prima i Persiani di Dario avevano capitolato a Maratona davanti al genio militare degli Ateniesi guidati da Milziade.

L’idea di vendicare quell’offesa si era presa l’anima di Serse come un tarlo e per quattro anni egli aveva speso le sue forze per mettere assieme un immenso esercito e una sterminata flotta nonché per eliminare gli ostacoli che la natura aveva piazzato fra Susa e Atene. Così, quando nel 480, migliaia e migliaia di uomini furono pronti e il mare che divideva i due lembi di terra fra Asia e Europa, il cosiddetto Ellesponto, fu coperto da un immenso ponte di navi, mentre il promontorio del Monte Athos fu tagliato da un canale per evitare tragedie di mare come era accaduto alla spedizione precedente, finalmente Serse si decise a partire.

Sono passati esattamente duemilacinquecento anni eppure possiamo immaginare perfettamente la scena che Erodoto ci descrive con l’arte dello storico attento ai fatti umani e propenso a riplasmarli letterariamente. È un attimo psicologicamente meraviglioso. Di fronte al ponte di navi con cui ha gettato un giogo innaturale sull’Ellesponto, osservando le truppe e la flotta che coprono la vista fino a ogni orizzonte, Serse sente l’anima invasa da una felicità traboccante, poi all’improvviso scoppia a piangere. Sono lacrime inaspettate ma che egli crede di saper spiegare con semplicità: “Si è fatto strada in me un sentimento di pietà al pensiero di quanto sia breve la vita umana, visto che di tutti questi uomini, che sono così numerosi, nessuno sarà ancora vivo fra cent’anni”.

In effetti c’è altro che preme attraverso l’emozione. Forse è il timore che possa accadere a lui stesso ciò da cui è stato più volte messo in guardia. “Il dio ama umiliare quel che si innalza. (…) Il dio non tollera che nessun altro, tranne lui stesso, nutra pensieri superbi”. L’essere umano ha un limite che non deve superare. Quando gli accade, deve temere l’invidia e la gelosia degli dèi pronti sempre a ridimensionare chi ha perso la misura della propria umanità.

Sono storie di ogni tempo. Ogni generazione assiste all’ascesa e alla caduta di uomini che hanno perso l’orientamento tanto violentemente sono stati catturati dall’ebbrezza della dismisura, dal sogno di dominio, dal delirio di onnipotenza. Duemilacinquecento anni fa il delirio si manifestò in Grecia nelle sembianze di un esercito che, stando a Erodoto (ma la cifra è certamente esagerata) poteva contare su 1.780.000 soldati di molti popoli diversi, affiancati da una flotta composta da 1207 imbarcazioni e 280.000 uomini che sommati agli effettivi via via arruolati in Europa avrebbe superato i cinque milioni.

Una forza talmente spropositata che nessuno avrebbe mai pensato di poterlesi opporre. E tuttavia la potenza non si misura soltanto seguendo calcoli numerici. Spesso sono altre le unità di misura necessarie. In questo caso, nessuno fra i Greci ignorava quale fosse la questione principale. Gli uomini al seguito di Serse eseguivano ordini, servi del loro re di fronte a cui si inginocchiavano come davanti a un dio. Quanto ai Greci, invece, essi lottavano per se stessi e per la loro libertà. Libertà è la parola d’ordine di ciò che sta per accadere. Eventi celebratissimi che tuttavia la libertà non spiegherebbe da sola se non fosse accompagnata dalla legge. “Hanno un padrone (anche i Greci): la legge, che temono molto più di quanto i tuoi uomini temano te” spiega a Serse uno spartano “La legge ordina sempre la stessa cosa: di non fuggire in battaglia neppure di fronte a una folla di nemici, ma di restare al proprio posto e di vincere o morire”. Serse scoppia a ridere. Ignora ciò che lo attende.

La storia oggi è viva nei luoghi in cui accadde molto più che in tutta quella massa di film e rievocazioni retoriche con cui epigoni sbiaditi hanno cantato eventi irripetibili pur di celebrare la data in cui trionfò per la prima volta in Occidente la potenza dell’idea di libertà di fronte a qualsiasi asservimento al nemico invasore. Il mare al largo di Capo Sepiade  per esempio. Un mare negletto. Di scarsa fama per i turisti che invadono le coste settentrionali dell’Eubea e osservato con noncuranza dalle pendici del Pelio dove nacque Achille, quasi fosse un mare eternamente calmo e placido su cui i traghetti per le Sporadi tracciano rotte ripetitive.

Fu qui che la drammatica fine di Serse cominciò a prendere forma attraverso l’imponderabile e l’imprevedibile. Perché la potenza della natura non può essere mai completamente aggiogata e il mare è sempre percorso da correnti invisibili mentre i venti all’improvviso si scatenano. Fu una tempesta di tre giorni a distruggere almeno 400 imbarcazioni della flotta persiana, uccidendo una quantità incalcolabile di uomini e spargendo in mare immense ricchezze capaci di cambiare la vita di un tale di nome Aminocle che nei giorni seguenti trovò a riva immensi tesori di oro e argento.

Serse intanto guidava le truppe di terra e si preparava a scendere attraverso la Tessaglia, mentre i Greci si erano ormai convinti di poter fermare l’invasore nello stretto passaggio lungo la costa di fronte all’Eubea chiamato Termopili. “A ovest delle Termopili si erge un monte inaccessibile” scrive Erodoto “a est della strada, invece, si trovano subito il mare e le paludi. Nel passo vi sono delle sorgenti calde (…); attraverso il passo era stato edificato un muro, in cui almeno anticamente vi erano delle porte”. Ecco spiegato il nome Termopili, Porte calde. E ecco spiegato soprattutto il motivo per cui Leonida, re degli Spartani, decise di attestarsi lì con i suoi trecento opliti, affiancati da pochi altri Greci fra cui svettavano settecento Tespiesi: un passo strettissimo dove, tra mare e montagna, riusciva a passare un carro soltanto. Oggi le fonti di acqua calda ci sono ancora, ma il mare non è più a pochi metri e si fatica a immaginare quanto fosse stretto il passo. Il fumo delle terme sale attorcigliandosi biancastro verso la montagna scura. Dalle automobili scendono coppie di ogni età già avvolte in asciugamani bianchi con cui escono di casa per andare a immergersi nelle acque curative.

Poco più in là palazzine e baracche accolgono migranti e una scuola gestita da cooperanti nordeuropei cresce bambini dagli occhi scintillanti. Nessuno sa nulla di quel che accadde qui. I turisti di quella battaglia epocale si fermano più a sud a visitare il Museo che non mette in mostra nulla oltre a un filmato, e a onorare un monumento a Leonida dove sono incise le famose parole “Molon Labe” ossia “Vieni a prenderle”, frase che Leonida avrebbe pronunciato in risposta alla richiesta di Serse di consegnare le armi.

Bisogna guardare verso la montagna per sentir vibrare la tragedia. Leonida aveva deciso di combattere in prima linea per dare l’esempio e spingere gli altri Greci a non allearsi con l’invasore. Che il re spartano fosse lì sconcertò soprattutto Serse. Ma ancor più sorprendente, per il Persiano, fu la notizia riportata da una spia che, giunta al campo nemico, si trovò di fronte gli Spartani che, aspettando l’attacco, passavano il tempo pettinandosi e facendo quotidiani esercizi di ginnastica. Pensò, il re persiano, che fossero uomini pazzi e ridicoli e si sarebbero dileguati immediatamente di fronte all’immensità del suo esercito. Sbagliava di grosso, e al quinto giorno si convinse che avrebbe potuto soltanto distruggerli sul campo. Così ordinò l’attacco. Attacco che fu più volte respinto e che durante quel primo giorno portò Serse, assiso sul suo trono di spettatore, a saltare in aria tre volte, meravigliato e parzialmente atterrito.

Il secondo giorno di attacco andò nello stesso modo. Finché fra i Persiani si fece vedere un tale di nome Efialte che conosceva un sentiero per accerchiare i Greci. Fu il tradimento più orribile. Ma Leonida, congedati gli alleati, non si perse d’animo. Attese, assieme ai suoi e ai Tespiesi (unici Greci che vollero rimanere a ogni costo), che le forze nemiche lo travolgessero. Tra i molti aneddoti raccontati su quelle ore di furore divino, uno è indimenticabile. Riguarda lo spartiata Dienece che avendo udito gridare “Scagliando i nostri dardi oscureremo il sole” rispose ridendo “Ottime notizie. Combatteremo all’ombra”.

La collina dove gli ultimi difensori delle Termopili caddero è immersa nel silenzio. Una placca riporta i celebri versi di Simonide: “O straniero, riferisci agli Spartani che qui / noi giacciamo, in obbedienza ai loro ordini”. Seduto all’ombra dei pini, io, però, ho in mente altri versi ancora. Lascio i luoghi antichi e in poche centinaia di metri sono nel paese moderno che porta il nome immortale delle Porte Calde. È tagliato in due dalla statale, un tunnel “alla greca” sotto alla strada mette in comunicazione le sue due metà.

C’è una taverna aperta. La proprietaria Fotinì sta mangiando con sua madre, Paraskevì. Mi offre vino e gamberetti. Non vuole che paghi. Ha visto ciò che leggo e sorride. È Kavafis. “Onore a quanti nella loro vita / si fecero custodi delle Termopili, / senza mai venir meno a quel dovere. / Integri e giusti nelle loro azioni, / ma sempre con pena e compassione; / generosi se ricchi e generosi / sia pur con poco se indigenti, / soccorrevoli quanto possono; / pronunciando sempre la verità, / ma senza detestare i mentitori. / E sono degni di più grande onore / se prevedono (e molti lo prevedono) / che all’ultimo comparirà un Efialte / e comunque i Persiani passeranno”. Leggo e rileggo e ho i brividi. Ragiono sulla lingua neogreca che per dire “incubo” dice “efialtis”.

Poi Fotinì mi spiega che deve portare sua madre a casa e chiuderà per un po’. Mi fa segno di imboccare il tunnel perché di là c’è un altro bar. La ringrazio. Le domando come vada la vita in paese e lei scuote il capo. “La crisi ci ha rovinati” mormora. “Il paese è svuotato”. Poi – e non so se ne sia consapevole o meno, se mi stia prendendo in giro, se semplicemente sia un modo di dire o forse la pura verità senza nessuna coscienza – chiudendosi nelle spalle, mentre sua madre si solleva dalla sedia di legno impagliata, dice senza appello: “Siamo davvero pochi ormai. Pochi e poveri. Non abbiamo più nulla. Siamo rimasti solo in trecento”.

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