Quando uno spettacolo lascia un’eco molto forte, l’idea
di recensirlo nell’immediato appare sacrilega: sarebbe come mettersi a parlare
del più e del meno dopo il primo bacio.
EUGENIO MURRALI, 2 aprile 2018
L’Antigone di Sofocle, appuntamento
della stagione del Teatro Arcobaleno di Roma, regia di Giuseppe Argirò,
protagonista Jun Ichikawa, non è più in scena. Probabilmente la potrete
rivedere solo fra alcuni mesi, non si sa bene dove. Che importa? Il critico
narra echi e se l’eco è viva a giorni di distanza, se quel suono interiore è
più definito, allora scrivere è giusto.
Nel Centro Stabile del Classico recentemente benedetto
persino da Franco Cordelli, Argirò compie uno di quei suoi atti di hybris che
forse lo rendono inviso agli dei quanto una lunga serie di eroi greci, ma ne
fanno uno dei rari registi italiani in grado di portare contemporaneamente in
un teatro la tragedia classica e il pubblico, anche giovane. In poco più di
un’ora, quella che per secoli è stata la tragedia per eccellenza, più amata
persino di Edipo re, prende una sua vita possibile sul palco. “Possibile”, è
quest’aggettivo che distingue l’allestimento riuscito di una tragedia dai molti
scempi che si fanno del classico.
Un passo indietro. Anzi molti. Ventidue anni fa un
regista animava un laboratorio teatrale in un liceo romano. Una giovane ragazza
italo-giapponese si era iscritta a quel laboratorio. La prima lezione verteva
sul personaggio di Antigone. Quel regista era Giuseppe Argirò, quella ragazza
Jun Ichikawa. Nelle atmosfere dello spettacolo si avverte la sacralità di un
patto, quella promessa intercorsa tra un’allieva e il suo insegnante si
riverbera nell’alleanza tacita stretta tra Antigone e il fratello Polinice.
Nulla si replica, ma tutto si compie su questo palcoscenico, con la solennità
dei giuramenti, la tragedia è agita, è “drama”, si attua come sacrificio,
trasforma l’ordinario in sacro. Questa profondità cultuale è il primo suono che
giunge con l’eco. La volontà del “possibile” è subito dichiarata dal regista
con un’acuta idea di contaminatio che apre la tragedia. Argirò prende in
prestito dalle Fenicie di Euripide il prologo, affidato a Maria Cristina
Fioretti. In questo modo anche lo spettatore più lontano dal mito classico
entra nella storia dei labdacidi attraverso le parole dei tragici e senza
didascalie.
L’eco porta con sé l’immagine di Antigone, Jun – sposa,
soldato, samurai –, il suo muoversi è liturgia poetica, ogni suo gesto è rito.
Oriente e Occidente, kabuki e tragedia, katana e crocefisso, cerimonia del tè e
divise, le forme si fondono in quello sforzo del teatro che tentando di
comprendere il divino finisce per spiegare l’umano.
Jun Ichikawa condensa ascesi e carnalità nella purezza
geometrica dei suoi movimenti, l’espressione del suo volto è il fuoco vestale
in cui vive la fratellanza ardente, nei suoi occhi avvertiamo il senso di un
dovere trascendente. Il suo corpo, in certi momenti come sospeso grazie alle
luci di Giovanna Venzi, si trasfigura, diviene testimone cristico di una legge
superiore, che sovrasta le regole imposte da Creonte, il tiranno, interpretato
in tutta la sua ricchezza di sfumature e contraddizioni umane da Maurizio
Palladino.
Tutti gli attori – la già citata Fioretti, anche nel
ruolo di Euridice, Filippo Velardi che qui è Emone, Silvia Falabella, un’Ismene
di grande personalità– contribuiscono con perfetta misura a dare vita alla
verità dell’Antigone classica nel solco di una drammaturgia che ha saggiamente
riassorbito i cori trasfondendoli nel tessuto degli altri personaggi e ha
saputo, con esito imprevedibilmente positivo, avvicinare al pubblico la
tragedia, facendo scivolare al suo interno parole che contrastano col tragico
antico, ma a loro modo lo completano, come quelle di Jean Anouilh.
Sorprendente e felice è la scelta di chiedere a Carmen Di
Marzo di interpretare il suo ruolo di guardia con una cadenza napoletana. Negli
scambi con Creonte emerge in questo modo il grottesco, il soldato assume quasi
i caratteri di un personaggio elisabettiano, e si crea un movimento che
rafforza il ritmo del dramma.
Un paragrafo a parte merita il Tiresia di Renato Campese.
Quando questo grande padre della scena arriva, occhiali da sole, fazzoletto al
collo, stampella per reggersi, il mondo gli s’inchina. Il suo semplice “stare”
è presenza che attiva processi emotivi, nel suo “dire” la parola fluisce
naturale, la poesia diviene canto realista, verbo logico, e ci sembra che
nessuno nella vita ci abbia parlato con l’autenticità di quel vecchio indovino
cui Creonte, culmine dell’ironia tragica, dà dell’imbroglione.
Questi echi risuonano a qualche giorno dall’ultima
replica dello spettacolo. Forse non è la messa in scena più ortodossa di una
tragedia greca, eppure quest’allestimento “possibile” riesce un poco nell’
“impossibile” e, dentro la risonanza che ne resiste, sembra proprio che
Antigone “giunga viva” fino a noi.
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