Olimpiakos e
Panathinaikos affondano tra i problemi, ma il derby rimane un momento religioso
e ancora violentissimo.
Di Simone Pierotti, 01/03/2018
Per quanto
ne sappiamo, Karl Marx non è mai andato in Grecia. E non ha vissuto abbastanza
per assistere alla diffusione del calcio, quasi fosse una corrente filosofica o
una dottrina economica. Eppure è suggestivo fantasticare che avrebbe apprezzato
il derby tra Panathinaikos e Olympiacos, perfetta proiezione sul campo da gioco
della sua teoria sulla lotta di classe – gli uni la squadra dell’alta società
ateniese, gli altri quella dei portuali del Pireo, stando alla vulgata. Col
tempo le differenze sociali si sono assottigliate e l’appartenenza ai
rispettivi schieramenti è diventata un fenomeno trasversale, ma l’inimicizia
tra biancoverdi e biancorossi continua a essere la madre di tutte le battaglie
e rimane incandescente. Anche troppo, forse.
Panathinaikos
e Olympiacos si sono spartite larghissima parte degli scudetti assegnati sia
prima che dopo la creazione del campionato a girone unico: l’ultima volta che
non è accaduto risale a 1994, che è come dire un’era geologica fa. Del resto,
la storia della Grecia moderna è un susseguirsi di dualismi, almeno dalla fine
della dittatura dei colonnelli in avanti: prima dell’avvento di Alexis Tsipras
le elezioni politiche sono sempre state prerogativa del partito socialista
Pasok e del conservatore Nea Demokratia.
Il calcio,
anzi, lo sport ellenico non ne è rimasto immune: Panathinaikos e Olympiacos non
hanno rivali nel basket – che a queste latitudini è ancor più popolare del
pallone –, nel volley e pure nelle edicole o nei periptera, i fornitissimi
chioschi abilitati a vendere ammennicoli d’ogni sorta dove è facile trovare
parecchie pubblicazioni giornaliere schierate dall’una o dall’altra parte. I
biancoverdi hanno addirittura un partito politico: la ragion d’essere del
Panathinaikò Kìnima, capace di accaparrarsi un seggio nel consiglio comunale di
Atene quattro anni fa, non è il rifiuto delle politiche di austerità o la
riduzione del debito, bensì l’amore per la squadra e il sogno (tramontato) di
veder sorgere nel distretto industriale di Votanikos il nuovo stadio. Qui siamo
ben oltre la semplice dimensione calcistica.
Non è molto
nota la storia per cui, paradossalmente, il Panathinaikos in origine indossava
i colori degli eterni nemici. Fondata nel 1908 come Podosferikos Sillogos
Athinon su iniziativa del giovane studente Giorgios Kalafatis, che avrebbe poi
ingaggiato il primo allenatore straniero nella storia del calcio greco e fatto
importare la pallavolo e la pallacanestro dopo averli ammirati ai Giochi
Interalleati di Parigi, la squadra scendeva in campo con delle sgargianti
divise rosse. Così accadde anche in occasione dell’esordio ufficiale nel
settembre di quello stesso anno: ironia della sorte, l’avversario era una
rappresentativa della Lega del Pireo, mortificata con uno schiacciante 9-0. Fu
una sorta di proemio al lungo poema epico del derby degli eterni rivali,
piuttosto che il primo capitolo: Kalafatis abbandonò la squadra a seguito di
alcune divergenze e decise di mettere in piedi una nuova società, il
Panellinios Podosferikos Omilos poi diventato l’attuale Panathinaikos con un
trifoglio ricamato sulle maglie verdi, mentre l’Olympiacos avrebbe visto la
luce soltanto a metà degli anni Venti ispirandosi al mito di Olimpia tanto nel
nome quanto nell’emblema – il profilo del volto di un atleta con una corona
d’alloro sul capo.
Il derby
ateniese è terreno di scontro anche fra uomini d’affari: dal 1979, quando il
calcio ellenico si convertì al professionismo, e per trent’anni a dirigere il
Panathinaikos è stata la famiglia Vardinoyannis – sì, la stessa che i tifosi
dovevano ringraziare secondo Alberto Malesani nell’ormai celebre conferenza
stampa ai tempi in cui allenava i biancoverdi –, mentre l’Olympiacos è tornato
ai vertici con Sokratis Kokkalis e, soprattutto, con Evangelos Marinakis. Da
quando il pingue armatore è al timone i biancorossi non hanno più abdicato,
instaurando un’egemonia sempre più inattaccabile e facilitata dal suo
patrimonio netto (stimato) di 650 milioni di dollari che garantisce grandi
investimenti e l’acquisto dei migliori giocatori.
Uno
strapotere talmente incontrastato da destare inquietanti sospetti sulla
regolarità dei campionati: Marinakis, figura controversa divenuta nel mentre
proprietario anche del Nottingham Forest, è stato accusato d’illecito sportivo,
corruzione e intimidazione di arbitri, venendo comunque prosciolto pur dovendo
rinunciare alla presidenza del club. Eletto poi consigliere comunale del Pireo
con una lista indipendente, è stato associato al partito di estrema destra Alba
Dorata ma lui ha smentito qualsiasi legame. Anzi, ha provato a ripulire la
propria immagine facendo distribuire ai suoi stessi giocatori cibo e vestiti per
i migranti sbarcati al Pireo, il porto più trafficato del Mediterraneo per
numero di passeggeri, e sollecitando i presidenti degli altri club a impegnarsi
nelle politiche d’inclusione. Al Panathinaikos il suo diretto antagonista è
l’azionista di maggioranza ed ex numero uno Giannis Alafouzos: è un armatore
(come Marinakis) che prospera nel campo della comunicazione (come Marinakis) in
qualità di proprietario del gruppo Skai ed editore del quotidiano conservatore
Kathimerini.
Sul campo,
invece, le due rivali sono tutt’altro che speculari. E quello che si giocherà
nel tardo pomeriggio di domenica al Georgios Karaiskakis giù al Pireo non sarà
un derby risolutivo per il campionato. Fuori dalla Champions League dopo la
fase a gironi, l’Olympiacos dovrà forse rinunciare al minimo sindacale dello
scudetto: a sette giornate dalla fine, con una partita da recuperare,
difficilmente annullerà gli otto punti di distacco dall’Aek e i nove dal Paok
– lo scontro diretto di domenica scorsa
al “Toumba”, è stato rinviato dopo il lancio di un rotolo di carta igienica
all’indirizzo dell’allenatore biancorosso Óscar García e ora la capolista
rischia multa, sconfitta a tavolino e penalizzazione in classifica. La vittoria
di una partita che fa sempre campionato a sé sarà invece l’unica ambizione per
un Panathinaikos sommerso dai debiti: come ha preannunciato il presidente
Vasilis Konstantinou alla pay-tv Nova, a causa della sua insolvenza il club
sarà probabilmente sanzionato dalla Uefa con l’esclusione dalle coppe europee
per il prossimo triennio. Una stagione drammatica, aperta con la zavorra dei
due punti di penalità per intemperanze dei tifosi nel playoff con il Paok
dell’anno passato.
Di sicuro la
tifoseria ospite, nella fattispecie quella del Panathinaikos, non parteciperà
alla trasferta. Niente sciopero o contestazione: lo hanno deciso nel 2004 le
autorità elleniche nel tentativo di eliminare, o più realisticamente di
mitigare, la violenza che troppo spesso macchia le sfide sull’asse Atene-Pireo.
E il provvedimento, contestato da vecchie glorie come Angelos Basinas e Stelios
Giannakopoulos, non ha sortito alcunché: i sostenitori della squadra di casa
trovano comunque un bersaglio da colpire, che siano i giocatori o dirigenti
avversari oppure le forze dell’ordine.
Era il 1964
quando si registrò nell’angusto “Apostolos Nikolaidis”, lo stadio del
Panathinaikos, uno dei primissimi episodi: la semifinale della Coppa di Grecia
venne sospesa dopo che alcuni teppisti abbatterono come alberi le porte da
gioco e appiccarono fuoco a qualsiasi cosa capitasse sotto tiro. La
competizione fu sospesa e assegnata a tavolino all’Aek. Nel marzo 2002
l’arbitro Ioakim Efthimiadis concesse allo scadere un rigore decisivo per il
pareggio dell’Olympiacos: seguirono un’invasione di campo e un’aggressione, con
le telecamere che immortalarono il volto del direttore di gara rigato dal
sangue. Il titolo di un quotidiano del giorno seguente fu impietoso: Ena-ena,
ta zoa («Uno a uno, gli animali»).
Gli scontri
fra i rispettivi sostenitori hanno avuto epiloghi perfino tragici come nel
2007, quando il ventiduenne Mihalis Filopoulos fu ucciso a margine del derby di
pallavolo femminile. Tutti i campionati professionistici del Paese, non solo di
calcio ma anche degli altri sport di squadra, furono sospesi per un paio di
settimane: non servì a nulla. E non si contano i derby nel basket decisi a
tavolino per gli stessi motivi di quelli nel calcio.
Nonostante i
divieti di trasferta, in occasione di Panathinaikos-Olympiacos e viceversa
continuano gli scontri: cinque anni fa i tifosi biancoverdi fecero ritardare
l’inizio del secondo tempo allo stadio olimpico, dove incendiarono seggiolini e
distrussero il tabellone elettronico. E contro la polizia in tenuta antisommossa
tirarono coltelli, sassi, razzi e molotov, costringendo l’arbitro a richiamare
tutti negli spogliatoi con otto minuti ancora sul cronometro. L’allora tecnico
biancorosso Ernesto Valverde, ora alla guida del Barcellona, dichiarò che tutta
quella violenza era collegata alla drammatica situazione economica della Grecia
da cui il Paese non vede ancora via d’uscita.
E se in
politica, al netto di governi tecnici o di transizione, è stato interrotto un
duopolio di quasi quarant’anni la rivoluzione sembra ora coinvolgere lo sport.
L’Aek ha appena vinto la Coppa di Grecia nel basket dopo l’egemonia delle
solite due e ora spera di replicare col titolo più ambito nel calcio, dove
appare sempre più sicuro che né l’Olympiacos né il Panathinaikos allungheranno
la striscia di scudetti.
Foto:
Pompieri spengono il fuoco allo stadio Olimpico in un derby del 2012
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